Block Notes di Jumper (numero zero | Beta)


Taccuino del 24/10/2017

Block Notes è un periodico edito dalla redazione di Jumper per analizzare, approfondire, contestualizzare fatti, tecnologie e cultura legata al mondo della fotografia e dell’immagine. Tratta, con un approccio originale, di sicuro trasversale, talvolta ironico e spesso trasgressivo, il mondo che sta attorno ai professionisti che hanno capito che l’informazione nell’Era dell’informazione è sempre più superficiale e porta ad una visione dal sapore provinciale, pur apparentemente “globale”. E’ una pubblicazione che si evolverà in funzione della risposta degli utenti/lettori, che sono gli unici ai quali guardiamo come “modello di business”: non vendiamo pubblicità, non monetizziamo su link, ancor meno vendiamo contenuti a terzi. Se ci dimostrerete che questo prodotto di informazione è utile, proseguiremo, altrimenti senza alcuna remora faremo semplicemente altro. Il modo per dimostrarci che quello che facciamo è importante si basa sull’interazione (scriveteci, per darci la vostra opinione, ma non la pubblicheremo, quindi si tratta di contatti e relazioni dirette, come è sempre stato tra persone) e facendo una donazione di quello che volete per dirci che… si, quello che scrivete vale e quindi sarà disposto a dare un contributo in futuro, per farlo vivere e crescere (il bottone di PayPal è semplice da usare, lo trovi alla fine del taccuino, e i link anche alla fine di ogni articolo, così se hai appena finito di leggere anche solo un articolo e lo hai apprezzato, puoi fare… click!). Buona lettura.


Sommario Numero Zero

Articolo 1 - E’ uscita la Adobe Creative Cloud CC 2018, siamo pronti ad accoglierla?

Da qualche anno, la nostra personale opinione sulle strategie di Adobe non hanno nascosto dubbi e anche qualche polemica. Sembrava che tutto quello che pensavamo utile per l’evoluzione della “specie” dei creativi venisse poco considerata come una priorità da parte di quella che è l’azienda più vicina e più importante per il nostro mondo, e attorno a noi invece si sviluppavano sempre più “attori” in grado di seguire invece questa filosofia “innovativa”.

In questi anni abbiamo apprezzato e premiato - informando, promuovendo spontaneamente e facendo formazione - soluzioni software e anche workflow di lavoro che all’apparenza seguivano una strada totalmente e diametralmente opposta a quella di Adobe, e sempre più abbiamo sostituito gran parte dei tools di produzione quotidiana con alternative che non arrivavano a sostituire la Creative Cloud (che infatti ovviamente non abbiamo mai smesso di pagare e usare), ma che ci hanno decisamente fatto pensare ad una possibile futura (e forse consensuale) separazione.

Per fortuna, però, siamo persone che non seguono le strade dell’evoluzione con atteggiamenti eccessivamente radicali, semplicemente non abbiamo paura del cambiamento, e per cambiamento intendiamo anche un “tornare indietro”, e non pensiamo che questo sia un errore o sintomo di leggerezza: semplicemente, ci sono momenti storici che ci permettono di essere accompagnati da alcune visioni e alcune aziende, altri che ci portano a spostarci, altri ancora che ci permettono di tornare indietro. Bene, da qualche giorno Adobe ci ha dimostrato una vitalità e una voglia di guardare esattamente dalla nostra stessa parte, dalla parte che ci interessa e quindi questo non può che farci piacere, anche perché di fatto le strade alternative ci stanno vincolando a delle scelte hardware che in questi ultimi due anni ci stanno strette (se volete leggere qualche dubbio e preoccupazione sulle strategie di Apple in ambito computer, beh… ci avete azzeccato; peccato che proprio i software nuovi/alternativi ci impongono di rimanere legati alla Mela visto che vengono rilasciati quasi solo per questa piattaforma).

Ma cosa ha fatto Adobe, la settimana scorsa? Ha presentato la versione 2018 della Creative Cloud, e questo non sarebbe molto: ogni mese ci sono delle innovazioni, nuove funzionalità, nuovi trucchi da scoprire, e forse tutto questo davvero ci limita, invece che arricchirci. Una citazione da un libro (di cui vi parleremo dopo, in questo stesso numero) è la seguente:

Ci trasformiamo così rapidamente che la nostra abilità di inventare cose nuove non sta al passo con la velocità con cui siamo in grado di civilizzarle." - Kevin Kelly

In questo “giro” di novità ci sono certo molte innovazioni, nuove funzionalità, ma queste sono le “notizie” che potete trovare ovunque, ci sono miriadi di blogger o di guru, o di “esperti” che vi inonderanno di queste novità tecniche, ma che sono solo polvere rispetto a quello che invece pensiamo sia importante, e che invece in pochi hanno segnalato. Parliamo della visione d’insieme, la condivisione di un’azienda che ha deciso di prendere in mano il futuro e di affrontarlo dal “suo” punto di vista, che di fatto è anche “il nostro”, dopo tanto tempo. Questa strada ha a che fare con termini che, usati in modo superficiale, possono sembrare distanti non solo chilometri, ma specialmente galassie dal nostro lavoro quotidiano. Queste parole sono “Intelligenza artificiale”, big data, scienze cognitive. Cosa c’entra, tutto questo, con il fatto che dobbiamo scontornare (più velocemente possibile) un soggetto dal suo sfondo? Certo, pensiamo che forse potrebbe esserci un tool che distingue meglio i bordi, che fa maschere automatiche, giusto? Ma (anche) questa è “intelligenza artificiale”. Il nostro occhio, la nostra mente è capace di distinguere un soggetto dal suo fondo, a prescindere dal contrasto, dal dettaglio, dalla difficoltà di separare i piani? Si, lo può fare, in un istante. Guardate la foto qui sotto: malgrado l’assenza di contrasti, ci basta una frazione di secondo a capire dove finiscono i capelli, e dove c’è lo sfondo, eppure per un computer e per un software attuale, pur aggiornatissimo, è un’operazione a volte molto difficile e certamente non immediato (si, lo sappiamo: se siete bravi ve la potete cavare in poco tempo, ma non in una frazione di secondo).


@ Unsplash - Steven Jones

Questo dimostra che la nostra mente è “superiore”? In realtà no, queste competenze non ci permetteranno in futuro di distinguerci e prevalere, ci sono operazioni che sono tipiche ed esclusive dell’essere umano, ed altre che verranno sostituite da operazioni di intelligenza “alternativa”. Pensateci bene: se potessimo avere una soluzione che ci toglie tutte le operazioni ripetitive, noiose, per nulla creative, in un istante (e, diciamolo, senza aggiunta di costi), non sarebbe qualcosa di eccezionale? Si, ma siamo solo all’inizio, perché siamo ancora nell’ambito delle funzionalità base. Volete seguire un percorso più evoluto? Seguiteci.

Adobe Sensei, cos’è?


Probabilmente (forse, chissà?) ne avete sentito parlare. Anche noi, e da come è stato spiegato non si capiva bene, giusto? Ad Adobe Max, dove appunto sono state lanciate le novità della prossima stagione, Adobe Sensei era ovunque: nel discorso introduttivo del CEO Shantanu Narayen (che non è certo un grande oratore, riesce ad essere meno emozionante di Tim Cook, e non è un bel record), in ogni intervento dei tecnici/guru, nella parte finale della presentazione introdotta da Abhay Parasnis (CTO di Adobe, il capo della della “Tecnologia”, anche lui poco “morbido” sul palco, sembrava voler sgridare tutti, ma forse era solo “intenso”) e poi mostrata - il momento più emozionante - da David Nuescheler Adobe Fellow & VP of Enterprise Technology at Adobe Systems. Con un approccio asciutto e pratico, quello che preferiamo, David ha mostrato come si sta integrando Adobe Sensei nei futuri software, partendo da quelli più conosciuti come Photoshop. Ha mostrato non una “funzione”, ma un approccio nuovo, un workflow che analizza ogni dettaglio e se lo ricorda, permettendoci di seguire strade alternative o sviluppare nuovi flussi partendo dalle decisioni già prese. Non vi facciamo perdere tempo a leggere qualcosa che va visto, ci sono venti minuti importanti che trattano questo tema, il video che è linkato qui (non possiamo embeddarlo nella newsletter, ma il link lo potete raggiungere cliccando anche direttamente l’immagine qui sotto e porta direttamente all’esatto minuto della presentazione che volevamo mostrarvi, guardatelo (sul serio, capirete perché troviamo tutto questo molto stimolante)

Siamo partiti da qui, che è oggettivamente “futuro” (nel digitale, “futuro” significa 12, 24, 30 mesi al massimo, non anni!), ma oggi ci sono tecnologie basate su Adobe Sensei che già si possono usare, forse sembrano più banali, ma non lo sono affatto. Per esempio, il superamento (parziale… Sensei sbaglia ancora, ma il vantaggio è che impara!) dell’inserimento delle keywords nelle immagini, la nuova versione di Lightroom CC (anche di questo parliamo tra poco) ci permette di trovare quello che vogliamo, semplicemente digitando. Ci sembra, forse, poco innovativo perché lo abbiamo visto (lo avete visto) già su Foto di Apple, e ancor di più su Google Foto, ma pensate a quello che ci permette già oggi di fare. Sensei è integrato in tutto, come viene scritto dalla stessa Adobe:

In Adobe Creative Cloud, Adobe Sensei anticipa la tua prossima mossa. Ricrea elementi nelle foto là dove non esistevano, studiando i pixel vicini. Riconosce i tipi di carattere e ricrea i font giusti al posto tuo. Identifica gli oggetti nelle immagini e aggiunge parole ricercabili ai tag delle foto. Inoltre, riconosce i volti e posiziona punti di riferimento specifici su sopracciglia e labbra consentendoti di modificare le espressioni con un solo clic. Ora le attività che di solito richiedevano minuti possono essere svolte in pochi secondi.

Photoshop, Illustrator, Lightroom usano già molte componenti di Adobe Sensei, ma non solo. E il grande vantaggio è che non ci chiede di cambiare il nostro modo di lavorare, non ci impone cambiamenti di workflow, ci accompagna e ci permette di avere un aiuto concreto, quotidiano, su tante piccole e grandi cose. Ed è proprio questa la filosofia che governa e deve governare l’intelligenza artificiale: non sostituirsi a noi, non imporci cambiamenti, ma rendendoci migliore e più semplice la vita (che comunque, da esseri umani, riusciremo a complicare in altri campi, e serviranno sempre più evoluzioni delle intelligenze artificiali e alternative per riportarci sulla strada maestra.

Potremmo parlare per altre mille pagine, di quello che ci dobbiamo e possiamo attendere dall’Intelligenza artificiale a servizio della creatività, ma vi porteremmo forse fuori rotta: come detto, queste evoluzioni (rivoluzioni) non vanno affrontate imponendo radicali cambiamenti, ma facendole entrare piano piano nel nostro vivere, lavorare, amare. Ci sono tematiche pratiche ben più pressanti, e che probabilmente faranno discutere. A partire da …. Lightroom.

Two is megli che uan? L’imbarazzo (e le discussioni che ne deriveranno) sui due Adobe Lightroom


@ Unsplash - Arnaud Mesureur

Come dicevano nello spot del gelato Maxibon (siete troppo giovani per conoscerlo? Eccolo qui), due sono davvero meglio di 1? In realtà, sotto lo stesso nome, Adobe ha deciso di differenziare due approcci alla gestione dei flussi fotografici, e non a caso ha chiamato “Classic” la versione che conosciamo tutti, un termine che si avvicina a “vecchio” più che al più cool “Evergreen”. La nuova versione, che si chiama semplicemente Adobe Lightroom CC fa capire che “il software” è lui, quello che conoscevamo è la versione “vintage” e di sicuro Adobe sa bene che i fotografi sono molto tradizionalisti.

Beninteso, ognuno deve usare quello che preferisce, quello che si sente “addosso”, e poco importa se si può apparire “oldstyle” o “New”, però vale la pena fare delle considerazioni di carattere filosofico e anche di visione sul come un fotografo si collocherà in futuro sul mercato.

Vi evitiamo (ma se volete, potete passare la prossima ora e 28 minuti ad ascoltare un’incerto e disordinato speech in inglese di Julieanne Kost durante Adobe Max Adobe MAX—The Creativity Conference., non c’è il link diretto, andate in fondo a questa pagina, il video si chiama “The Future of Photography”.) i dettagli tecnici, cosa fa uno o cosa fa (in meno o in più) l’altro, quello che ci preme è trasmettervi la filosofia. In pratica, la versione “Classic” è la stessa che conosciamo e conoscete, qualche piccola miglioria, ma lo stesso prodotto. La versione Lightroom CC invece è “tutto nuovo”, ma non è vero: era quello che chiamavamo in gergo “Lightroom on line” che è diventato un nuovo prodotto, che è per certi versi più semplificato (si, ha meno funzionalità), ma ha il grande vantaggio di essere totalmente ”cross Platform”: le nostre immagini vengono caricate sul Cloud (è previsto un abbonamento con 1 TB di spazio) e possono essere gestite indifferentemente da computer, tablet e smartphone. Inutile dire che le prime due polemiche che verranno (per certi - molti - casi anche giustamente) sono questi:

E’ vero, sono questioni sulle quali riflettere, sia in positivo che in negativo. Di fatto, si aprono le due vie:

Lightroom Classic:
- Archiviazione Locale
- Backup manuale
- Accesso ai files su device esterni come “proxi-bassa risoluzione”
- inserimento manuale delle keywords
- Stessa interfaccia “tradizionale”

Lightroom CC
- Archiviazione Cloud (1TB)
- Backup Automatico
- Accesso su tutti i device dei files Hi Res
- Utilizzo dell’intelligenza Artificiale
- Nuova interfaccia ottimizzate per un approccio/flusso più rapido anche da device mobili multitouch e anche dal web

Chi deve sposare il nuovo e chi rimanere attaccato al passato? Sapete che siamo orientati al futuro, e siamo convinti che i fotografi professionisti dovrebbero sposare una filosofia produttiva, imprenditoriale e creativa basata sulla contemporaneità. Oggi, essere snelli, lavorare ovunque (specialmente NON in un ufficio/studio), essere direttamente connessi con il mondo digitale dei social e del web è LA strada. Ci sono campi che possono fare a meno di tutto questo, ma sono nicchie ad altissima specializzazione, il grande e il grosso del mercato deve trovare nuove strade. Il prossimo vostro super computer potrebbe essere un tablet, che davvero in questo campo può fare quanto e più di un computer; fate un calcolo di quello che potrebbe costarvi un nuovo iMac Pro, o anche “solo” un Macbook Pro e vi accorgerete che un ottimo tablet che è ugualmente potente, che vi permette di lavorare ovunque, che vi apre un’orizzonte di una gestione del vostro spazio e del vostro tempo ben più efficace. Non ci sono le connessioni? Alcune considerazioni:

C’è - poi - una questione che farà ancora più male: Lightroom su Mobile consente anche di scattare foto con il device (iPhone, iPad…). E permette di farlo anche in… RAW (sembra una provocazione, dopo quello che abbiamo scritto sui/contro i RAW). Si, proprio così: permette di scattare in DNG, di sfruttare al massimo la qualità del sensore e forse proprio su questi device che sono “al limite” un intervento più raffinato di “sviluppo” potrebbe essere una chiave importante ed utile. Vi assicuriamo che ormai Lightroom è diventato (da tanto, non da quando è stato annunciato Lightroom CC su Desktop, visto che non è altro che la versione computer delle app che esistono già da tempo su mobile, la nostra “app per scattare foto” e funziona alla perfezione. Possiamo decidere di scattare in bianco e nero, con tutti i preset che desideriamo, e poi di cambiare idea: è solo una impostazione del DNG, davvero eccezionale proprio su uno strumento che non è una fotocamera, ma uno smartphone. E proprio parlando di smartphone…. siamo (siete) sicuri che uno smartphone non sarà mai parte del vostro flusso di lavoro di immagini professionali? Lo è già, lo sarà sempre di più, e sarà sempre più ovvio e naturale lavorare su un unico workflow unificato, con salvataggio sul cloud.

La vera chiave di tutto il progetto, la parola giusta, è “Ecosistema”. Lightroom, versione “nuova” è un nuovo step che si propone di riposizionare la fotografia in un nuovo contesto, Lo ha già fatto dieci anni fa, esattamente dieci anni fa quando è nato (compresa la fase di beta, quasi 11, a dirla in modo corretto), contrapponendosi al “tradizionale” Photoshop. Dieci anni fa (noi c’eravamo, ed eravamo già belli anzianotti nel settore della fotografia digitale) in pochi erano disposti a scommettere in quella “nuova idea” che pur rappresentava la logica evoluzione di un processo suddiviso in singole fotografie, per proporsi come un workflow per “tante fotografie”. Oggi questo non solo è normale, ma è ovvio. Tra dieci anni, nessuno metterà in dubbio il cloud e l’ecosistema su vari device, e allora forse sarà il momento per un’altra rivoluzione.

Ultimo punto, poi vi lasciamo alle vostre personali (e insostituibili) valutazioni: le statistiche dicono che oggi il 40% dell’Italia è coperta da una connessione a banda larga. Lo sappiamo che quando non si è dalla parte “positiva” della statistica tutto appare buio e forse anche falso (esiste uno studio che dice che, ormai, le persone non credono più alle statistiche e neanche ai dati oggettivi, dichiarano semplicemente “io non sono convinto”, e questo spesso basta per mettersi dalla parte della ragione, senza alcuna valutazione oggettiva), ma le connessioni nei prossimi anni sono comunque destinate ad evolversi velocemente, e questo grazie non al “cavo” (è sempre complicato come installazione) ma alle antenne cellulari 4 e 5G. Alcuni dovranno soffrire ancora un po’ ma l’onda dell’innovazione vincerà anche sulla pigrizia dei nostri imprenditori e ancor più dei nostri politici. Leggevo che l’Africa (non riesco a trovare il link esatto, ma in parte ne parlano anche qui), il Paese meno connesso al mondo, non ha in realtà problemi di superare questo gap a causa della connessione, ma a causa dell’assenza dell’energia elettrica nelle zone rurali (che sono immense), ma che si stanno trovando soluzioni anche a questo. Come dire… ce la faremo, ma nel frattempo dobbiamo iniziare a smettere di motivare il nostro ostruzionismo al cambiamento usando la scusante dei limiti “oggettivi” della nostra Italia, perché presto questa scusa non ci sarà più, e noi non ci saremo allenati a dovere.

Ma alla fine, che faccio? CC o non CC? Ricordatevi che sono disponibili nuovi (utilissimi) software…


Escludiamo dal discorso coloro che per filosofia non acquistano il software (e poi si arrabbiano quando qualcuno ruba le loro immagini, gridando alla mancanza di rispetto per il “diritto d’autore”). Per tutti gli altri, che vogliono avere gli strumenti giusti e vogliono pagarli quello che “reputano giusto”, dobbiamo segnalare che - per ora annunciato solo negli USA, ma non crediamo che possiamo sperare di rimanere al di fuori di questo “onore” - il prezzo della CC è aumentato del 6%, passando a $52.99 al mese rispetto ai $49.99.

Aspettiamo il coro di insulti e arrabbiature, poi continuiamo.
(1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9….)

Ok, avete contato fino a dieci? Proseguiamo. Non fa piacere a nessuno, al tempo stesso non vogliamo fare l’avvocato del diavolo, ma dobbiamo dirlo: avete visto le novità che sono state inserite? Ad Adobe Max sono diventati dei veri prodotti (e non più solo dei progetti beta) due software che hanno davvero dell’eccezionale:

1) Adobe Dimension CC
2) Adobe Experience Design (XD) CC


Qualcuno ancora è dell’idea che ai fotografi servano solo Photoshop e Lightroom, in realtà servono un sacco di cose, per allargare gli orizzonti e il business. Dimension e XD lavorano proprio in questo senso. Adobe Dimension CC è davvero una magia: permette di lavorare con il 3D senza saper nulla di 3D. Non può risolvere tutto, ma quello che può fare è spettacolare: permette di inserire soggetti/oggetti 3D in una immagine fotorealistica, di calcolare tutti i riflessi, le superfici, le forme, permette di applicare elementi 2D a superfici 3D (caso classico: etichetta su un flacone per fare un packaging), e di creare quindi mondi virtuali integrati a quelli reali. Tutto questo con una semplicità sconvolgente. Lo avevamo provato brevemente in beta, ora è un prodotto maturo che sembra proprio essere quello che può servire per entrare in un nuovo capitolo dell’immagine, e trarne grandi vantaggi.


Adobe XD CC, invece, è un software che abbiamo seguito sin dal primo giorno (si chiamava Project Comet) e che consente di prototipare contenuti destinati ad app e contenuti digitali. Detto così, sembra davvero poco interessante, ma se vi diciamo che potete creare contenuti che possono essere pubblicati online e visualizzati su vari device, in modo interattivo ed ottimizzato, di colpo potete capire che se anche non pensate di produrre app, potete creare contenuti davvero cool simili a dei siti o ad altri contenuti digitali a forte impatto, unendo in un solo pacchetto sia il design (creare i contenuti e impaginarli), sia l’interattività (clicco e succede qualcosa, scrollo e proseguo la visualizzazione della pagina…) sia la distribuzione.

C’è poi tutto il mondo delle APP di Adobe (da usare su smartphone e tablet) che sta crescendo e che - in modalità semplificata e limitata - si possono usare gratis, ma per avere il massimo bisogna avere un abbonamento. Ricordatevi che avete bisogno di strumenti per esempio di promozione on line, e la triade Adobe Spark (Page, Post, Video) vi permette di realizzare contenuti per il web e per i social davvero molto moderni e funzionali che potete usare per voi o per i vostri clienti, intervenire anche con contenuti grafici anche se non siete esperti di grafica (di solito i fotografi hanno qualche criticità in questo senso) e oggi con le nuove versioni, se si ha un abbonamento CC si può anche eliminare il logoFatto con Adobe Spark”, che di sicuro non era il massimo dal punto di vista professionale. C’è anche Adobe Portfolio, che potrebbe essere molto meglio del vostro sito internet (senza costarvi nulla).

Ok, il senso è che oggi, più che mai, ha un senso avere un abbonamento CC. Non lo diciamo per convincervi, non lo diciamo perché ci hanno chiesto di farlo, e ancor meno perché ci guadagnamo qualcosa. Lo diciamo perché se avete una visione globale, se credete che il futuro sarà incredibile (ma anche quasi impossibile da decifrare), se pensate che la vostra attività ha di fronte anni ed anni di evoluzione e che non si può pensare di proseguire con i processi di una volta, allora l’investimento va fatto. E non pensiamo certo a quel “caffè al giorno” che costa tutta la licenza Adobe CC, ma al tempo necessario a civilizzarla, come da citazione di Kevin Kelly dell’inizio di questo lungo articolo. (ma ritroveremo Kevin verso la fine di questa edizione del nostro taccuino).

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Articolo 2 - Stampare, un business sconosciuto?


@Unsplash - Nathan Boadle

Siamo stati in settimana ad un evento stampa dedicato al mondo della stampa a sublimazione. E’ raro, sempre più di rado andiamo alle conferenze stampa, ma ce l’ha chiesto un’amica e comunque avevo qualche curiosità da coltivare sul tema e dobbiamo dire che è stato stimolante e costruttivo. Si parlava di sistemi di stampa veloce, velocissimi: oltre 2000 stampe all’ora, calcolate per difetto (1,5 secondi per una stampa 10x15 cm). Si parlava, appunto, di stampa a sublimazione, argomento che è stato distante dalle nostre attenzioni per un bel po’, al punto che non sapevamo che fosse possibile la stampa fronte retro (ma siamo tra le persone che ammettono di non sapere un sacco di cose, per questo siamo un po’ meglio di quelli che fanno finta di sapere tutto). Stiamo parlando di una stampante nuova, chiamata Hiti X610 High Speed, che si propone come assoluta e concreta alternativa ad un minilab, stampa senza chimica, alla velocità della luce, con una buona qualità e sono predisposte anche per la stampa di immagini panoramiche (luuungheee).

L’azienda in questione si chiama Hiti, (si pronuncia “Aiti”, che non deve farvi ricordare la famosa isola, semmai i reparti di Information Technology , IT), probabilmente non la conoscete, non è uno di quei nomi “famosi”, ma è un’azienda con sede a Taipei, Taiwan ad altissima capacità tecnologica: non sono “distributori di tecnologia altrui” (come spesso capita, anche per brand famosi), Hiti costruisce tutto in casa, dalle testine di stampa ai motori, al consumabile, e dispone di tecnologie assolutamente esclusive. Non è un caso che Hiti produce le stampanti a sublimazione più veloci in assoluto: hanno inventato un sistema che invece che fare quattro passaggi (uno per colore + l’ultimo di ottimizzazione) li applica in contemporanea, ed appare ovvio quindi il vantaggio in termini di tempo. Buono a sapersi che Hiti ha appena aperto una sede in Italia, coordinata da una persona di grande esperienza del settore, Francesco Desideri, al quale facciamo tanti auguri. Però, al di là di segnalare questo dettaglio di cronaca, che è del tipo “interessante” perché non facile da trovare in giro, troppo specialistica per poter smuovere gli algoritmi di Google o di Amazon, c’è un motivo in più per parlarne, ed è proprio il frutto del dialogo avuto durante questa conferenza stampa, quando si è fuori dai riflettori e ci si scambia qualche opinione fuori dagli schemi (il nostro territorio preferito).

Siamo partiti dal dove saranno naturalmente collocate queste stampanti, e la risposta più ovvia è stata: dove c’è una grande affluenza di pubblico: grandi centri commerciali, ma ancor di più parchi di divertimento. La grande verità è che se pensiamo a “luoghi con grande affluenza di pubblico” possiamo pensare a tutto meno che a dei negozi di fotografia. Non abbiamo certo inventato l’acqua calda, i negozi di fotografia non sono certo luoghi che normalmente pullulano di persone, a volte è difficile anche formarli davanti alla vetrina, per arrivare al dubbio: ma ce l’hanno una vetrina attraente, i negozi di fotografia? Non ne ricordiamo nessuna. Eppure… se qualcuno dice che ormai non si stampa più, non ha visto negli occhi le persone che si trovano di fronte l’occasione di poter tirare fuori, specialmente dai loro smartphone gravidi di fotografie, delle stampe in un istante. Mettete una stampante in azione e scoprirete che la fame di stampe è incredibile. Attenzione però a non fare l’errore di confondere stampa con “esclusività”, con “nicchia di mercato”, perché questo settore è ben conosciuto e in parte apprezzato, ma riguarda un pubblico limitato (questo non significa che sia “limitante” dal punto di vista del business). Stiamo parlando di fenomeno di massa, una conferma arriva da Polaroid e da Fujifilm che macinano fatturati imprevisti (dagli stolti) proprio proponendo sistemi di ripresa con “collegata” la componente della stampa: le persone amano stampare e possedere cimeli. Gli esperimenti fatti lo dimostrano, la formula magica è una piazza piena di persone (inutile segnalare “persone con un sacco di foto”, perché questo è la normalità), una stampante in grado di produrre all’istante una bellissima stampa (non minuti, ovviamente non ore, ma nemmeno tanti secondi… vuoi? eccola… due secondi!), e una buona comunicazione.

Sappiamo che questo non è facile, potrebbe essere costoso, ma tutto come sempre può trovare una scalabilità, bisogna capire che è necessario spezzare la falsa verità che la stampa è per pochi, siamo stati noi (chi doveva guadagnarci di più) che l’abbiamo portata avanti questa teoria, siamo noi (fotografi, esperti di fotografia, aziende) che abbiamo portato lontano il mercato. Siamo noi che abbiamo tirato i remi in barca: era troppo complicato, era troppo arduo e forse è stato considerato inevitabile: visto che la fotografia non aveva più bisogno della stampa, la distribuzione poteva avvenire facilmente tramite gli smartphone, il “Media-Stampa” diventava solo un costo. I laboratori fotografici, quelli grandi, hanno chiuso (con strascichi di tristezza), i minilab sono diventati macchine troppo lente e ingombranti per essere moderne, e poi erano drammatiche da gestire, la stampa inkjet proponeva qualità ma non produttività e certamente non prezzi bassi…. Dove sbattere la testa? Più facile lasciar perdere, se proprio qualcuno voleva delle stampe c’è sempre il canale di Rikorda o PhotoSi, un paio di giorni e tutti sono contenti. Due giorni? No, due secondi… questo è quello che chiede il mercato (se no, nemmeno chiede).

La stampa non è un’esigenza, è un’emozione, e le emozioni si sviluppano sull’onda dell’istinto, se bisogna attendere, l’emozione lascia lo spazio al raziocinio, di colpo si pensa alle tonnellate di stampe che abbiamo in casa e che non tiriamo mai fuori, agli album degli anni passati, arriva in superficie il concetto del “quanto costa?” e di colpo sembra evidente che qualsiasi prezzo è “troppo”… Anche i servizi online, rischiano questo progressivo ed inevitabile “blocco”, una delle conferme arriva da Flickr (passato indirettamente di proprietà, nel senso che è stato il suo “proprietario” (Yahoo) ad essere stato ceduto a Verizon, azienda che non bada certo alle questioni “romantiche”, ha di recente annunciato che non gestirà più i prodotti stampati che finora proponeva in collaborazione con Blurb. Dobbiamo quindi valutare che ci sono due strade che generano esigenze di stampa:

1) Stampa per utilizzi specialistici/professionali
Bisogna proporre ai professionisti (che non è detto che siano solo legati al mondo dell’immagine, pensiamo alle tante applicazioni che portano la stampa di immagini nei settori dell’architettura, dell’interior design, della comunicazione in generale che ha nella stampa grande formato (su tutti i supporti, per ogni “applicazione: pareti, muri, vetrine e vetrate, veicoli, allestimenti fieristici) i suoi punti di forza. La stampa piccolo formato su carta standard, per esigenze professionali e “semplici” vien già fatta internamente alle aziende e agli studi che sono i clienti da raggiungere, bisogna avere delle caratteristiche specifiche e qualificanti da proporre: ripetiamo, il grande formato, ma anche i sistemi di stampa che garantiscono risultati specifici e particolari.

2) La stampa per la massa
La fotografia, di massa, ha bisogno di tornare alle sue motivazioni istintive. Vorrei avere una macchina per stampare, in una piazza gremita di persone, sarebbe una festa e sarebbe un grande business, ogni giorno, giorno dopo giorno… mese dopo mese. Prodotti semplici, pronti all’uso (all’acquisto), senza riflettere. Trasmettere il piacere di avere una foto stampata, senza le pippe del “preservate il futuro”, senza tirare in ballo i vecchietti che hanno inventato Internet e che quindi dovrebbero essere i maggiori esperti delle sue evoluzioni e che ci dicono che le autostrade digitali distruggeranno la nostra storia e quindi dobbiamo stampare per garantire un futuro ai nostri ricordi (il problema non è questo, lo dimostra il fatto che se cerchiamo davvero di “distruggere” qualcosa che abbiamo pubblicato on line per errore o per stupidità, ci accorgiamo che da qualche parte, prima o poi, spunterà fuori. Dobbiamo pensare a creare, con la stampa, semplice gioia, condivisione, istinto, come tutto quello che ha creato il fenomeno dei selfies, quello che ha fatto nascere Instagram (che vale di più della Kodak dei suoi periodi migliori), oppure le persone che comprano l’iPhone di ultima generazione perché ha la “funzione ritratto”.

La formula inizia dal piccolo: trasformate i vostri centri vendita da boutique esclusive a momenti di gioia per vivere la fotografia, almeno un angolo fatelo diventare una zona di gioia…. se ci credete, se ci dedicate gli sforzi e la comunicazione necessaria… funzionerà.

Articolo 3 - Prodotti o servizi? Anche il nostro lavoro è ad un bivio


@Unsplash - Caleb Woods

Il mondo sta trasformandosi, davanti ai nostri occhi. Si sta passando dal possesso alla fruizione, dal prodotto al servizio. Lo si vede ovviamente in settori più evoluti come la musica (Spotify, Music, Deezer e gli altri), della viabilità cittadina (Uber), del mangiare (oggi più che i ristoranti valgono i sistemi di consegna a domicilio (Deliveroo, Foodora, Just Eat), e così via. Ma siamo solo all’inizio e questo cambiamento includerà anche tutto il nostro mondo.

“Flusso costante implica più che un semplice «Le cose cambieranno», significa che ora i processi –i motori del flusso –sono più importanti dei prodotti. Nella nostra epoca nuova, i processi surclassano i prodotti.”
- Kevin Kelly

Ancora una citazione di Kevin Kelly, e tra poco sveliamo perché tanti collegamenti con lui. E’ un insegnamento importante, sul quale dobbiamo riflettere, e forse lo faremo più a fondo in un prossimo futuro (vi siete accorti, immaginiamo, che abbiamo molto da dire…). Il motivo per cui lo abbiamo inserito nel nostro Block Notes è che, ancora una volta questa settimana, particolarmente prolifica di informazioni e di sensazioni, è stato annunciato un software nuovo, dai tratti rivoluzionari. Il suo settore è quello della prototipazione, un argomento che è venuto fuori anche nell’analisi dedicata alla Creative Cloud con il sistema Adobe XD. E’ un caso che, nella stessa settimana ci siano altri annunci importanti su questo stesso discorso? Dubitiamo quasi sempre delle coincidenze.


Il soggetto in questione si chiama Studio, un software dedicato al design di contenuti dedicati agli schermi digitali. La particolarità di questa soluzione, che prevede la sua uscita a gennaio 2018, ma chi vuole (noi abbiamo voluto) pre registrarsi potrà ricevere in anticipo le versioni pre-release. Non si tratterebbe di una grande novità (tante aziende propongono prodotti simili), se non per il fatto che l’azienda che lo propone è Invision. Forse in molti (e fate male) non conoscete questo nome, che pur è il leader proprio del settore della prototipazione. Lo abbiamo già detto: solo una piccola percentuale di voi forse svilupperà App o anche solo siti internet, ma avere uno strumento che permette di creare molto velocemente contenuti destinati agli schemi, di alta qualità, flessibilità, piena interattività e soluzioni per distribuirli condividerli e consentire un lavoro di dialogo e collaborazione tra varie persone di un team anche a distanza è un’arma che ci si può giocare in tanti modi.

Invision è appunto il leader di questo mondo, con milioni di utenti/clienti e sempre all’avanguardia, sia dal punto di vista dell’innovazione che da quella della comunicazione. I suoi sistemi si integrano perfettamente ai tools già esistenti di creazione di questi contenuti, in particolare il software più apprezzato, Sketch (non quello di pari nome offerto da Adobe come app che si chiama Adobe Photoshop Sketch… e nemmeno il software di 3D (Questo), ma un software solo per Mac per creare appunto grafica vettoriale o raster per gli schermi. Ecco, dopo anni di grande collaborazione, integrazione, quasi fusione tra la componente di design (Sketch) e quella di prototipazione (Invision), quest’ultima azienda in pratica ha deciso di lanciarsi in una concorrenza netta con la prima usando due armi: la grande esperienza maturata in questi anni in questa integrazione tra i due software (che, nel caso non lo abbiate capito, sono di aziende diverse, ora concorrenti), la seconda arma è un mercato di utenti che pagano un servizio completo, che include vari tools. In pratica, Studio sarà parte di questi tools, per dirla in modo semplice… sarà gratuito per chi usa le loro soluzioni, e visto che la maggior parte dei professionisti che usano Sketch usano anche Invision. Sarà una competizione complessa, anche se va detto che Sketch ha un sistema molto intelligente di gestione delle licenze: si paga una volta, e questa licenza vale per una serie di aggiornamenti/nuove release, se poi uno vuole proseguire può aggiornare il software alla nuova ultima versione con un costo aggiuntivo, oppure rimanere alla release ultima del suo contratto, e a quel punto non deve pagare nulla. Anche in questo caso, la politica è meno da “abbonamento”, meno da “Prodotto” e più da servizio… si scontreranno i servizi e di conseguenza si valuterà la qualità di entrambi (e anche la fantasia e le nuove idee che saranno in grado di offrire).

Nel settore dell’hardware, abbiamo avuto per un lungo periodo il business model orientato alla monetizzazione della vendita dei consumabili (Polaroid forse è stata la prima: le fotocamere costavano pochissimo, ma serviva per portare alla vendita di pellicole, sulle quali la marginalità era molto elevata, poi sono arrivati gli inchiostri delle stampanti, un “liquido che costa più dello champagne”: le stampanti home/small Office costano, con una cartuccia, poco più di quello che costa la cartuccia di inchiostro che dovremo comprare quando finirà quella che ci hanno “regalato” con la confezione della stampante e non a caso molto dello sforzo che viene investito da queste aziende è quello di creare vincoli (non solo legali) a tutto il mondo delle cartucce “non originali”… per evitare che il vero guadagno raggiunga aziende “terze”, che non hanno fatto l’investimento del vendere, magari sottocosto o comunque a basso costo, la macchina. Nell’era digitale, sempre più i business model sono legati ai servizi: si guadagna e addirittura si riesce a creare l’esigenza di acquisto di hardware perché rappresenta un “ponte” per acquistare servizi. Si compra l’iPad per possedere/usare delle app che ci facilitano il lavoro oppure che ci permettono di giocare, divertirci, informarci. Amazon ha usato e usa questa logica con Kindle: il reader costa pochissimo specialmente nelle sue versioni basic (ma anche quelle molto evolute, che ovviamente costano parecchio d più, ma sono davvero molto evolute come tecnologia), le statistiche dicevano qualche anno fa, crediamo che sia ancora così - non abbiamo aggiornamenti in merito - che addirittura Amazon perdesse qualche dollaro per ogni Kindle venduto, ma anche ogni apparecchio, alla fine, generava un elevato utile grazie alla vendita dei contenuti. Il vantaggio del digitale è - inutile dirlo - quello di poter vendere un bene ad un costo di distribuzione quasi pari allo zero (costa l’infrastruttura di distribuzione, inizialmente, che però viene ripagata in ogni singola vendita, e quindi si ammortizza velocemente).

La grande rivoluzione del business model del “servizio” ha però raggiunto la sua massima espressione da una “vendita” di servizi a costo zero. L’utente “usa” servizi dai quale trae grande vantaggio e soddisfazione, ma non paga per questi servizi, almeno non apparentemente. Incredibile: possiamo usare software potentissimi (quelli che una volta pagavamo, per esempio la suite di Microsoft Office) e non paghiamo nulla (la suite di Google); una volta dovevamo investire in potenti software e connessioni per poter distribuire i nostri video, ora (da tanto) ci pensano YouTube, Vimeo ed altri… totalmente free. Eppure noi paghiamo e tanto: in tempo, in attenzione, in audience, nell’accettare di essere un target che viene venduto e monetizzato a peso d’oro. Su questo meccanismo abbiamo visto volare molto in alto alcune aziende, che si sono così tanto infiltrate nella nostra vita che non ci permettono nemmeno più di pensare come potremmo fare senza di loro. Pensate ad una vostra giornata senza usare nemmeno una volta Google per cercare qualcosa, YouTube per visualizzare un video, Facebook per aggiornarci su quello che fanno e condividono i nostri amici. E poi pensate di moltiplicare questa “astinenza” per due, tre, 10, 100 giorni: impossibile, vero?

C’è, infine, un ultimo step, che riesce (e forse riuscirà a pochi) di diventare così grande ed importante da creare un business di alto profilo/valore/monetizzazione anche sull’hardware. In pratica, dopo la vendita ad alto costo degli “oggetti”, si è passati all’inglobare il loro valore all’interno di un costo di “servizio” e si torna indietro creando un valore “premium” per strumenti di maggiore qualità, che hanno un costo anche elevato ma che accrescono l’esperienza d’uso dei servizi in questione. Questa soluzione è adottata da sempre (e sempre più) da Apple, unica azienda che riesce a monetizzare tanto sia dal servizio (iTunes, Music) sia dall’hardware (per accedere a questi servizi si usa prevalentemente l’hardware di Apple, il più costoso al mondo, quindi il vantaggio per questa azienda è moltiplicato. Già aziende come Samsung - malgrado la sua dimensione e potenza - non guadagnano nulla dai servizi, ma solo dal “ferro” ed è quindi in posizione svantaggiata; va meglio a Sony che da tanti anni ha capito che il business dei suoi prodotti di fruizione dei contenuti multimediali doveva andare a braccetto con i contenuti (Musica, film.. eccetera), che trova ancora nell’ecosistema della Playstation la sua perfezione: hardware esclusivo, software/games dedicati, utenza molto ben profilata, piattaforme future già tracciate (online, VR, eccetera). Un segnale di questo cambiamento arriva per esempio da Google, che dopo avere proposto per anni dei computer a bassissimo costo, i Google Chromebooks, basati sul concetto dell’Always on, sempre connessi e che usano i software online di Google (la già citata suite concorrente a Office di Microsoft), e la strategia era proprio quella dell’hardware a basso costo per “monetizzare il servizio” ora si pensa di proporre computer raffinati, ad alte prestazioni, e a costo più elevato. Sembra un segnale molto importante, ovvero che non serve più “convincere” una gran parte di utenza a “provare nuove strade”, questi processi sono stati accettati e adottati universalmente, quindi c’è chi vuole di più, e questo “di più” si può avere solo con strumenti più evoluti. Si paga il servizio (direttamente o indirettamente, come abbiamo visto) ma si paga anche lo strumento per fruirli al top.

Futuro dei servizi integrati agli strumenti Premium

Il futuro (ma già il presente) ci offre/offrirà sempre più servizi e processi, e anche prodotti per fruirli in modalità “premium”. Pensiamo alla realtà virtuale (sono in arrivo vere e grandi novità hardware, stand alone (non caschi collegati ad un computer), ma anche non legati allo smartphone (Cardboard): vere unità indipendenti che permetteranno di vivere nello specifico l’esperienza VR, con costi non alti ma comunque importanti (per esempio Oculus Go, annunciato da Facebook a 199 dollari, oppureGoogle DayDream, realizzato in collaborazione con quella HTC che ha di recente acquisito la sua divisione smartphone, ma con la quale ovviamente avrà un dialogo stretto e profondo anche per quello che riguarda l’area). Anche il VR diventerà un servizio, seguirà la stessa strada del video, dei blog, dei software di gestione del lavoro, sarà tutta un’integrazione tra prodotto e servizio, e sulla base della maturità del mercato, il costo dello strumento di accesso passerà da essere costoso, a costare pochissimo, per poi in certi casi a tornare a costare tanto per esigenze di una fascia di utenza più raffinata ed esigente. Tutto sarà come la corrente elettrica, il riscaldamento, il telefono (la tua voce…).

Come integrarsi, non solo da spettatori, in questa competizione? Prima di tutto, analizzando i dettagli che proprio questo taccuino vuole proporre: giochiamo un po’ come il gatto con il topo: vi abbiamo seminato indizi, sensazioni, percorsi di analisi aggregate, ma sviluppandoli in vari settori e in varie visioni del mercato. In una settimana, questi segnali si sono uniti tutti, era nostro desiderio/compito farveli unire in un concetto unico.

Ma parlando di futuro, è arrivato il momento di parlare (far parlare) di un futuro ad ampio raggio, e per questo vi invitiamo a leggere l’ultimo step di questo primo taccuino, dedicato ad un libro. Che, appunto, parla del futuro… (e che ci ha aiutato a tirare i fili di questi concetti, in tutto questo numero).

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Articolo 4 - Un libro per capire il futuro dei prossimi 30 anni

Ci ha accompagnato per tutto questo primo Block Notes, quasi un ospite speciale, ma in realtà ha accompagnato noi di Jumper da oltre 24 anni, è una delle persone che più ha ispirato lo sviluppo di molte delle idee e delle visioni che abbiamo sviluppato in questi tanti anni di attività. Tanto per fare un collegamento pratico, Kevin Kelly è stato tra i fondatori del primo Wired, uscito nel 1993, noi con Jump siamo usciti l’anno successivo, e nella fase di creazione della nostra rivista abbiamo di sicuro guardato con attenzione quel gruppo di “pazzi” che a San Francisco volevano convincere il mondo che il digitale avrebbe dominato il mondo. Noi all’epoca ci abbiamo creduto subito, all’epoca litigavamo con le prime connessioni (il web era ancora lontano almeno dalla visione italiana, usavamo sistemi primitivi quali Compuserve e AppleLink, con modem davvero lentissimi, quindi non era possibile caricare immagini più pesanti di poche parole scritte).

Dopo il cammino ci ha portato ad incontrarci quando Kevin è diventato direttore di Wired, sostituendo Louis Rossetto, e poi con quel meraviglioso manifesto dove parlava dell’importanza dei 1000 fans sul web (qui l’originale, in inglese sul suo sito,qui una sintesi in italiano), poi libri come “Quello che vuole la tecnologia” e una presenza costante in molti dei viaggi di ricerca. Nel 2016, Kevin ha scritto un libro importante, The Inevitable, che solo da pochi giorni è disponibile anche in italiano… un gap di un anno è la normalità per tutto quello che non è stellare (Ken Follett viene tradotto in italiano in contemporanea all’edizione originale, ma questo non avviene con libri che pur si sa già che avranno un mercato e un successo - ovviamente non paragonabile ai best sellers da milioni di copie, ma consistente), e purtroppo quando si parla di innovazione e di nuove visioni un anno di attesa è davvero tantissimo, quasi “troppo” (per fortuna, nel nostro Paese, le cose accadono sempre con una lentezza estenuante e quindi si può recuperare). La prima sintesi della questione è quindi: senza parlare "molto bene” l’inglese è difficile essere aggiornati in tempo reale sull’innovazione.

La cosa positiva, comunque, è che il libro è disponibile finalmente, sia nelle principali librerie nella sua versione cartacea, sia - forse è preferibile - online, anche nella economica versione eBook, per esempio su Amazon, qui il link per scaricarlo. Si tratta di una dissertazione leggera, appassionante, sul come riuscire a tracciare le innovazioni che sono davanti a noi. Perché 30 anni (e non 10 o 100)? Perché Kevin fa un confronto con gli ultimi trenta anni di storia, che ci ha portato alla nascita di Internet e a tutto quello che è poi derivato. Se il mondo è cambiato così tanto (e noi, con il mondo), allora non possiamo che aspettarci che questa corrente evolutiva si propagherà con la stessa intensità e velocità anche in un periodo analogo. Trent’anni fa, in molti non hanno capito cosa stava per succedere, ed erano persone che magari avevano l’opportunità di avere una panoramica più evoluta della massa. Un esempio, la citazione dell’astronomo Clifford Stoll che prendeva in giro Nicholas Negroponte (altro nostro “maestro” di digitale che abbiamo avuto la possibilità di studiare all’epoca) sull’argomento dello sviluppo dei media digitali:

"«In realtà, nessun database online sostituirà mai le testate giornalistiche» sosteneva «eppure Nicholas Negroponte, direttore del MIT Media Lab, prevede che presto compreremo libri e giornali direttamente attraverso Internet. Come no?» Stoll coglieva perfettamente lo scetticismo prevalente nei confronti di un mondo digitale ricco di «biblioteche interattive, comunità virtuali e commerci online» riassumendolo in una sola parola: «fesserie».

Beh, forse negli anni Negroponte ha sparato anche molte visioni estreme e ancora irrealizzate, ma con il senno di poi, le critiche di Stoll fanno sorridere. Anche il commento di una testata importante come Time, all’epoca, metteva in dubbio tutto quello che poi, chiaramente, è successo:

“….ciò che scriveva il Time sul motivo per il quale Internet non avrebbe mai preso piede: «Non è stato progettato per il commercio e non si adatta facilmente ai nuovi arrivi».

Non vogliamo raccontarvi il libro, anche perché ancora non lo abbiamo finito (la rottura di una caviglia e il conseguente gesso sarà occasione per recuperare tempo sufficiente per finirlo), ma vi esortiamo a leggerlo, prima perché ci trasmette ottimismo, e in questo momento di grande incertezza (a volte declinata in paura, o addirittura in terrore) ci serve una visione saggia e positiva; si, i saggi possono essere anche ottimisti! in seconda battuta, perché possiamo trovare orientamenti per il nostro futuro, che non deve guardare alla fine del percorso - trent’anni - ma una sequenza di un percorso che fa partire il viaggio oggi, e via via, mese dopo mese, anno dopo anno, ci porterà a questo traguardo (che magari per qualcuno potrebbe essere non raggiungibile, inutile dire personalmente che vedo una visione a trent’anni troppo distante per me, ma questo non significa che non sia interessante incamminarci sulla strada del futuro, non importa dove e se arriveremo, ma importa il percorso e - come dice sempre KK, “Il processo supera di gran lunga il prodotto”, dobbiamo pensare al processo (la via da seguire) e non al prodotto (il risultato, il traguardo).

Vi lasciamo con due stralci, che non anticipano le conclusioni del libro e nemmeno “la trama”, ma orientano e stimolano la decisione di investire otto ore per leggerlo tutto (questa la stima che mi viene indicata dall’App Kindle di Amazon). La prima è proprio segnalata all’inizio, spiega la filosofia che ha portato alla stesura del libro:

Non siamo ancora in grado di prevedere il futuro, ma alcune risposte sono certe, o quasi. Per esempio, non avremo un’auto di proprietà: pagheremo per abbonarci a un servizio di mobilità e trasporto da utilizzare all’occorrenza. Anzi, non possederemo quasi nulla, ma quando ci servirà qualcosa potremo accedervi facilmente. La realtà virtuale sarà ormai «reale», farà parte di qualsiasi telefono cellulare. Dialogheremo con tutti i nostri dispositivi elettronici grazie a una serie predefinita di gesti, e tutte le superfici saranno coperte di schermi interattivi, ognuno dei quali ricambierà puntualmente i nostri sguardi. Tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana saranno tracciabili e registrabili, da noi stessi ma anche dagli altri. I robot e le macchine pensanti ci avranno rimpiazzati nei vecchi impieghi, ma non resteremo senza lavoro, perché nel frattempo proprio quelle tecnologie avranno creato nuove occupazioni.

Già, vedete che tutto torna? Tutto quello che abbiamo scritto, tutto quello che era appuntato nel nostro taccuino? Capite perché abbiamo dedicato tanto tempo a scrivere tutto questo? Perché in una settimana, sono troppe le coincidenze che ci riguardano e ci collegano tutti. E la convinzione che abbiamo è che queste “coincidenze” ci sono tutte le settimane, tutti i mesi, tutti i giorni… serve raccoglierle, serve fermarsi per metterle insieme. Lo abbiamo fatto per voi, e abbiamo bisogno di voi per proseguire questo viaggio, non possiamo farlo da soli, quindi se pensate che tutto questo - o anche una piccola parte di quello che abbiamo scritto - ha un senso di utilità, allora contribuite con un gesto, con un approccio di “donazione” che servirà a capire chi davvero sta “con noi” e “ha bisogno di noi”. Faremo poi una sintesi, di questa azione totalmente volontaria e informale, e se avrà le gambe per trasformarsi in una attività concreta e formale, allora ci saranno procedure ufficiali e ben delineate. Ma, per finire, vi abbiamo promesso due ultime citazioni, dal libro di Kevin Kelly, l’ultima è qui sotto, e ci obbliga a riflettere che solo la continua ricerca, il continuare a sentirci “studenti” e mai “professori” ci darà accesso al sapere. Un sapere temporaneo, che ha senso di cristallizzare e rendere fruibile e decifrabile a tutti, per poi ributtarsi dopo un instante al nuovo studio. Questa, senza dubbio, è la filosofia di questo Taccuino di Jumper. Ora e, speriamo, nel futuro:

“Non importa da quanto tempo si stia usando un particolare strumento, gli aggiornamenti infiniti inevitabilmente ci rendono niubbi (novellini)* –spesso si pensa che siano i nuovi utenti a non sapere dove mettere le mani. Nell’epoca del «divenire» tutti diventeremo niubbi o, peggio, saremo niubbi per sempre; il che dovrebbe mantenerci umili.“ da ”L’inevitabile" di Kevin Kelly

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