Non si diventa “visual storytellers” scrivendolo sul biglietto da visita…

Non si diventa “visual storytellers” scrivendolo sul biglietto da visita…

Stanley Kubrick

Per cercare di trovare un ruolo contemporaneo, il fotografo tenta di ingannare con le parole. Ha imparato (in parte siamo anche colpevoli delle parole usate in giro, perché lo abbiamo dichiarato, scritto e spiegato mille volte, da tanti anni) a dire:

“Io non scatto fotografie, racconto storie”

Se vuole essere ancora più “cool”, si affida alle parole magiche:

“Non sono un fotografo, sono uno storyteller”.

Lo so, ne abbiamo parlato per anni, su Jumper e in mille convegni. Il problema, cari amici, è che non serve parlarne, bisogna dimostrare con i fatti questa attitudine, e in giro più se ne parla e meno si vedono veri risultati. Una storia, per essere raccontata in modo efficace, richiede alcuni punti fondamentali (alcuni così palesi che sembrerebbe inutile anche citarli, se non che poi nella realtà non si percepiscono, quindi meglio ribadirli):

  • Serve scriverla, la storia, nella nostra testa. Non si può raccontare una storia se non sappiamo quale è la storia. L’autore può percepire la storia nel soggetto (persona, luogo, percorso), oppure deciderla a prescidere. Si può decidere di raccontare una storia e si cercano gli elementi visivi per costruirla, oppure portare gli osservatori verso quel percorso che abbiamo definito in partenza.
  • Dobbiamo trovare il ritmo giusto per raccontarla. Non esiste una storia che funziona se non prevediamo quello che vogliamo ottenere come reazione da parte del fruitore. Dobbiamo farlo ridere, piangere, pensare, innamorare di qualcosa o di qualcuno? In un film intenso ci sono — quasi sempre — tutti questi elementi, in un ritmo che cresce, si evolve, attraversa sensazioni e il regista, come un direttore di orchestra, sa esattamente quando ottenere quella reazione, la bacchetta indica la sensazione “lacrime” e il musicista esegue quella nota che creerà quella reazione, e tutti piangono.
  • Le storie hanno un inizio, uno svolgimento e una conclusione. La difficoltà è già questa, pensando ad una narrazione che si sviluppa nel tempo (un film, un’opera teatrale, un libro, una sinfonia), ma diventa ancora più difficile se si vuole sintetizzre queste tre fasi in una sola immagine o comunque in un tempo breve. Per imparare a farlo, bisogna fare molto allenamento, e bisogna essere davvero bravi. Sintetizzare è molto più difficile che ampliare.
  • Non è sufficiente saper raccontare una storia correttamente, bisogna capire quali sono le storie che le persone hanno voglia di ascoltare e scoprire. Se la storia è noiosa, non emozionante, se racconta fatti conosciuti o banali e non si trova un modo che possa catturare l’attenzione del fruitore, rimarrà in un angolo, e non servirà a nulla. Abbiamo più storie che tempo da dedicare alle storie, si diventa selettivi, inevitabilmente.
  • Una storia ha bisogno di un supporto adeguato: in gergo lo chiamiamo “media”, ma il senso è più ampio: non si parla solo di carta, web, video, radio. E’ qualcosa che unisce, completa e rafforza il contenuto, non è solo contenitore e non solo veicolo di diffusione.
  • Prima di scegliere il supporto dovremmo capire la differenza tra un “Media” e l’altro, e anche questa non è una scelta banale, perché anche la modalità di narrazione — parlando sia di linguaggio che di tecnica — influenza considerevolmente, specialmente se non abbiamo ancora approfondito con cultura sia le soluzioni più tradizionali, che quelle più innovative. Tra queste ultime, possiamo per esempio citare (visto che è la nostra specializzazione): Parallax scrolling, VR, Augmented Reality, Interactive videos, LivePhotos, eccetera. Ma sulla carta potrebbero esserci ulteriori spettacoli affascinanti: verniciature, tipi di carte diverse, trasparenze, elementi applicati e anche “ponti” verso percorsi complementari che uniscono fisicità a effetti digitali.

Alla fine, però, questo percorso che unisce storia, emozioni, ritmo, media, supporti, effetti conduce al punto fondamentale: abbiamo delle storie da raccontare? Oppure tutto questo è solo il tentativo di creare un “pacchetto” ben confezionato per vendere (o provare a vendere) un prodotto che sembra non trovare più sufficiente appeal? Il fotografo troppo spesso arriva a questo mestiere partendo da una base tecnica (imparo a fare le foto, ad usare le macchine) oppure da un approccio estetico (mi piace fare immagini così). Col tempo, impara (se lo impara) ad unire queste due competenze per metterle a servizio di un cliente, ma solo in piccola parte arriva a fare il fotografo per rispondere ad una sua “necessità/desiderio” di raccontare delle storie. Ci sta provando ora, perché in giro si dice che “raccontare/vendere storie è più promettente che vendere foto”, ma non ha mai imparato a farlo, semplicemente ci prova (e quasi mai ci riesce).

 

Stanley Kubrick — LOOK Magazine Collection, Library of Congress, Prints & Photographs Division

Esiste un mestiere che ha a che fare con la fotografia e con “storie da raccontare”? Si, il cinema: tecnica simile, approcci simili, ma i film non sono figli di tecnica pura (so fare un filmato corretto, quindi faccio un film) e nemmeno solo solo “estetica”. Guardare allora — dopo tante parole — come un “futuro regista” ha trattato in gioventù la fotografia è un’ottima occasione per capire cosa significa “raccontare una storia con una fotografia”. Questo giovane fotografo, che sapeva di chiamarsi Stanley Kubrick ma non sapeva, alla fine degli anni ’40 che sarebbe diventato Stanley Kubrick, ilregista dei registi, il genio Kubrick, l’inarrivabile Kubrick trattava la fotografia. Ogni sua immagine era un film, sintetizzato in un frame. Non sapeva che stava facendo quello, ma stava raccontando storie, non scattando immagini. Sintetizzava percorsi narrativi che — ad un certo punto — non è più riuscito ad accontentarsi di tenere chiusi in una sola immagine, e ha iniziato a fare film. E il fatto che Kubrick abbia abbandonato la fotografia per raccontare le sue storie con i film non è un fallimento della fotografia come strumento di narrazione, ma semplicemente le “sue storie” erano più lunghe da raccontare. La conferma arriva proprio guardando le foto che pubblichiamo (su licenza Library of Congress): non hanno bisogno di didascalie, non è necessario enfatizzare che:

“non sono solo foto, sono storytelling”

Non serve, perché lo sono, e basta. E questo è quello che conta. E in ogni immagine c’è una tensione narrativa che porta a chiederci: e poi cosa succede…? Oppure ci permette di immaginarla noi, di sognarla, di creare una fantasia che ci accompagna.

La prossima volta che dichiariamo che siamo “storytellers” proviamo a domandarci cosa raccontiamo, se a qualcuno interessa e incuriosisce la storia che raccontiamo, e poi — timidamente — confrontiamoci con il giovane Kubrick. Perché se non ci confrontiamo con quelli bravi, è troppo facile…

Se volete un consiglio, non limitatevi a vedere/osservare queste poche foto, qui trovate una selezione di libri di Stanley Kubrick fotografo, ce ne sono di ogni prezzo, ma scoprirlo, studiarlo, approfondirlo concretamente non ha davvero prezzo. Fatevi un regalo, il vostro futuro di visual storytellers ne ha bisogno ;-)

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