Ha senso abbassare la propria fotocamera, decidere che no, non si vuole raccontare una determinata storia facendo un ennesimo click? La foto che pubblichiamo è molto forte e fa riflettere ben oltre quello che è il fatto specifico, una contestazione di un gruppo di fotogiornalisti all’arrivo dell’ambasciatore giapponese Yasumasa Nagamine al Ministero della Difesa sud coreano a Seoul il 23 novembre appena passato. Questi professionisti hanno deciso di far passare la persona che erano lì a ritrarre attraverso un corridoio dove tutte le fotocamere erano poggiate sul pavimento, da entrambi i lati, decidendo di non documentare tale fatto; il motivo era perché era stato deciso di non consentire la presenza degli stessi fotografi durante la firma, avvenuta in forma privata.
Come detto, però, più che il fatto in sé, troviamo stimolante la foto di questa reazione collettiva, la decisione di dire di no, di lasciar cadere un fatto nell’oblio visivo, la documentazione di una “non documentazione”. E ci permette di fare qualche considerazione, sul ruolo del fotogiornalismo in un’era che vive di un consumismo di fotografia, senza soffermarsi poi sul valore e sull’importanza di questo linguaggio e di questa forma di comunicazione.
Aggiungiamo un altro tassello, sul tavolo di questa discussione: l’altro giorno, abbiamo letto il commento di uno dei maestri della fotografia Sebastião Salgado, che ha dichiarato che:
La fotografia è in via di estinzione
Secondo l’opinione (rispettabilissima, considerando specialmente il valore del personaggio), la fotografia non è quella di Instagram o del web, la fotografia è quella che si tocca, che si stampa, e che – tempo 20-30 anni – sparirà, lasciando un buco immenso nella cultura e nella storia di tutti.
Non abbiamo la stessa opinione, ovviamente: anche le (belle) immagini di Instagram sono per noi fotografia, cambia il supporto e il media, ma non il contenuto e il linguaggio, ma alla fine non è importante, perché ognuno deve decidere cosa reputa giusto fare e come muoversi in questo mondo che offre però, senza dubbio, tante sfumature e percorsi, più di quelli che c’erano una volta. Ci sarà chi vuole chiudere le porte, lasciare la fotografia isolata in contesti ed esperienze selettive; chi, invece, (noi siamo tra quelli) crede che tutto quello che allarga la visione e le opportunità di condivisione è un valore che fa crescere. Ma possiamo continuare a vivere insieme e anche bene, anche se ci sono opinioni diverse; quello che serve (può servire) è di capire cosa succederebbe – nella nostra società – se di colpo i fotografi decidessero di non fare più fotografie, o se addirittura, come dice Salgado, non avremo più fotografie nel nostro breve futuro.
Ovviamente, questa ipotesi non esiste. Chiamiamole “immagini” se non sono abbastanza “fisiche” come le fotografie, chiamiamoli “scattini” se non saranno “fotografie professionali”, ma gli elementi visivi per descrivere qualsiasi cosa ci saranno sempre e sempre di più. Cambiano e cambieranno gli strumenti, i linguaggi, gli “attori”, ma siamo nell’era in cui si producono miliardi di foto in ogni attimo, in ogni parte del mondo. La documentazione di tutto non è in dubbio, e non è un caso che proprio l’assenza di uno scatto viene – in questo evento di Seoul – descritta e raccontata proprio… da uno scatto. Non si può sperare possa esistere un oblio, qualcuno ci sta provando per darci una speranza di poter addirittura far sparire noi stessi dal mondo digitale, ma sappiamo bene che non è possibile, non sul serio. La sfida non è quella di “non mostrare” (qualcuno mostrerà, qualcuno ci sarà, qualcuno tirerà fuori il proprio smartphone), la decisione potrebbe e dovrebbe essere decisamente più “intima”:
Non voglio fare questa foto
Chiamatela, se volete, etica, ma ancor di più si tratta di un posizionamento, di ruolo e anche di marketing: non siamo quelli che fanno “click” e nemmeno più quelli che “siamo capaci – o abbiamo l’opportunità – di fare quel click”. Viceversa, siamo quelli che “vogliamo fare/firmare” una fotografia oppure no. E’ come dire: non nel mio nome, non grazie a me, non per colpa mia (e nemmeno per mio merito). Il mestiere non è quello di fare quello che qualcuno (tutti) danno per scontato sia il nostro “dovere” (e nemmeno il nostro “vantaggio”), un mestiere si costruisce non solo sui SI, ma anche sui NO. Sempre meno, il nostro non sarà un lavoro all’insegna da Ogni lasciata è persa, ma che definirà, anche agli occhi dei clienti, del mercato, del futuro (se vogliamo guardare in ambiti più allargati e antropologici) chi siamo e cosa vogliamo essere, perché vogliamo essere pagati per questo mestiere, e perché siamo diversi rispetto agli altri che, inevitabilmente, queste scelte non le faranno, si accontenteranno di “esserci” e di fare quello che naturalmente viene considerato il nostro ruolo.
Non è snobismo, non è presunzione: ogni tanto dobbiamo dire di no, perché ci può portare più in alto (da tutti i punti di vista, compreso quello economico anche se sembra/appare il contrario) degli infiniti SI. Se state correndo, dietro al lavoro e dietro agli impegni, ritagliatevi questa pagina (potete usare Evernote, per esempio) e questo pensiero per recuperarlo in un momento in cui forse sarete più tranquilli per poter affrontare e condividere questa filosofia; noi siamo molto intenzionati a seguirla.
Ps: beninteso, vista la giornata elettorale, non si tratta di alcuna metafora per trasmettere od orientare un parere politico verso il SI o verso il NO ;-)