In questi giorni si discute tanto, nelle piazze, di quella che viene definita “Alternanza Scuola Lavoro”, elemento centrale della legge 107 del 2015 (anche conosciuta come “La Buona Scuola”). Come scritto sul sito del MIUR (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca):
“[…] con l’alternanza scuola-lavoro, viene introdotto in maniera universale un metodo didattico e di apprendimento sintonizzato con le esigenze del mondo esterno che chiama in causa anche gli adulti, nel loro ruolo di tutor interni (docenti) e tutor esterni (referenti della realtà ospitante). Dal corrente anno scolastico 2016/2017 l’alternanza è obbligatoria per gli studenti del terzo e del quarto anno. A regime, dall’anno scolastico 2017/2018, saranno coinvolti tutti gli studenti dell’ultimo triennio: circa 1 milione e mezzo di ragazzi.”
E’ una buona idea, ma ovviamente non è detto che sia un’idea che funziona perfettamente. Non basta una legge che apre orizzonti più moderni per garantire modernità e innovazione. Il problema principale sono i connettori tra due mondi che, di fatto, non parlano la stessa lingua, non hanno le stesse finalità e non si alimentano della stessa sostanza. L’operazione può essere vista come una eccezionale occasione per le aziende, che si ritrovano una forza lavoro a basso/bassissimo costo, ma se questi ragazzi non sono formati possono coprire/ricoprire solo mansioni marginali e di basso livello. E i ragazzi, che magari – e in parte giustamente – aspirano a incarichi più vicini a quello che stanno studiando, non sono contenti se vengono inseriti in un call center, sostituendo tra l’altro persone che in quel contesto cercano un lavoro per vivere, e non per “formarsi”. Un equilibrio complesso, che non può non considerare un elemento altrettanto drammatico, che viviamo da vicino ogni giorno (buona parte della nostra attività è quella di docente universitario, a contatto con centinaia di giovani ragazzi che escono dal campus di un’accademia e devono lottare per trovare uno stage sottopagato (ma spesso anche non pagato per nulla): se succede a loro, cosa possono “sperare” ragazzi ancora più “acerbi” e inesperti?
Le scuole dovrebbero insegnare a lavorare, ma non sono in grado di farlo, o ci riescono solo parzialmente. Sono gli stessi formatori che, per “formazione” (scusate il gioco di parole), non sono allenati ad insegnare il “mestiere”; al massimo le tecniche, i processi, ma non come si lavora. Torniamo quindi alla legge, e ne percepiamo la buona intenzione (o quantomeno il corretto orientamento): se le scuole non insegnano a lavorare, portiamo i ragazzi nel mondo del lavoro. Ottimo, se non per un dettaglio: le aziende non sono capaci di “insegnare” il lavoro, e non hanno nemmeno le risorse (culturali, prima ancora che economiche che pur sono al centro di questa situazione) per prendersi sotto la propria ala protettrice ragazzi da far crescere. La legge prevede dei tutor, sia lato scuola che azienda, ma saranno queste persone in grado di svolgere il loro compito, creando un passaggio fluido dall’ambiente scolastico a quello lavorativo? I ragazzi, in aula – specialmente se pensiamo alla loro giovanissima età al liceo – sono (diciamolo… giustamente!) distratti, raramente hanno le idee chiare su quello che vogliono fare nella vita, per guadagnare la loro attenzione è necessario grande sforzo e impegno, bisogna convincerli che quello che si sta trasferendo è davvero importante e interessante. Chi scrive esce dalle lezioni senza un goccio di energia, la battaglia da combattere in ogni minuto è rubare l’attenzione, cercare di far entrare concetti, motivarli, creare connessioni con la modernità e attualità. I tutor delle aziende possono avere lo stesso approccio, la stessa competenza, esperienza e passione? Oppure riusciranno a vedere tutto questo come una perdita di tempo, come una fatica aggiuntiva che non porta alcun vantaggio concreto? Ma, ancor di più, i titolari/dirigenti delle aziende avranno quel “sacro fuoco” che li porterà a vedere l’occasione come una crescita globale e non solo un vantaggio piccolo e a breve termine? I ragazzi che entreranno nelle aziende saranno visti come la linfa fondamentale per il futuro, o come merce di bassa manovalanza per il presente?
Ci vuole formazione (dei formatori), ci devono essere patti solidi. La documentazione sulle modalità e sui “patti” sono online, e sono anche abbastanza chiari, e si trovano qui. Ma per farli funzionare, serve una corretta, precisa e approfondita mappatura delle esigenze, aspirazioni e specificità degli studenti (ci domandiamo: come avviene la scelta/selezione? Ogni studente ha delle potenzialità e delle criticità: come fare a valutarle per trovare la migliore abbinata?), ma anche tipologia di offerta/esigenza da parte della scuola. Non sarà sempre perfetto, ma bisogna lavorare perché almeno l’ottimizzazione sia una priorità assoluta, e quindi servono anche sistemi di controllo efficaci.
Alternanza Scuola Lavoro: cosa possiamo fare noi tutti (piccoli studi creativi, fotografi, artigiani)?
Perché vi parliamo di tutto questo? I nostri lettori sono, in gran parte, professionisti, non studenti (ce ne sono, lo sappiamo, ma probabilmente più grandi di quelli che sono al centro di questa legge). Prima di tutto perché molti sono genitori, e quindi l’argomento non è privo di preoccupazione e interesse, ma la potenzialità dell’alternanza Scuola-Lavoro coinvolge tutti per due motivi. Il primo è che le realtà professionali legate al mondo della fotografia e della creatività quasi sempre sono piccole e dovrebbero crescere, inserendo nuove energie. Il valore dei giovani, anche “acerbi” e impreparati può essere una chiave incredibilmente forte per la crescita/evoluzioni delle realtà vicine al nostro mondo. I ragazzi “non sanno lavorare” ma hanno una visione del mondo ovviamente molto più contemporanea, intuizioni che possono essere utili per identificare nuovi approcci e nuovi prodotti. Il nostro settore è vecchio, e sta andando verso un possibile oblio perché ha difficoltà ad aggiornarsi, a staccarsi da una serie di approcci che erano quelli che “funzionavano” e che proprio perché “funzionavano”, ora “non funzionano più”. Certo, come abbiamo detto, prendere in studio un ragazzo o una ragazza molto giovane ed inesperto non può essere visto per coprire un ruolo che competerebbe ad una persona esperta, i giovani non sono “manodopera a basso costo”, sono ragazzi che devono studiare, capire, e il nostro ruolo è quello del “maestro di bottega” dei secoli passati. I giovani che vanno formati nel mondo del lavoro sono un investimento, ci occuperanno tempo (tanto tempo), ci faranno “perdere tempo”, ci “rallenteranno”. Dobbiamo dare a loro strumenti per capire, per non sbagliare (per sbagliare meno), e i prodotti che realizzeranno probabilmente – di sicuro all’inizio – non saranno di buona qualità. Per questo è difficile pensare di inserirli in ambiti molto piccoli, dove si lavora senza sosta per la sola sopravvivenza. Eppure… è proprio questo che bisognerebbe fare. Investire nel futuro non significa solo pensare ad innovazioni tecnologiche, nuovi mercati, nuove attrezzature… bisogna pensare che senza freschezza mentale, senza visione giovane non si andrà da nessuna parte. La logica quindi dovrebbe essere: trovare il modo per entrare in questo meccanismo, iscrivendosi e facendo le richieste del caso: diventare una “struttura ospitante” e organizzare il proprio lavoro per far sì di poter dedicare il tempo necessario per capire come e quando interagire con questi ragazzi, per far sì che questa sia un’eccezionale esperienza, sia per loro che per voi. Il “ritorno” c’è, ma va compresa nella sua visione globale, anche facendo capire ai giovani che lo sforzo deve essere forte da entrambi i lati, spiegando loro che anche piccoli compiti sono grandi occasioni, che non si inizia dal ruolo di “senior”, ma al tempo stesso dando costantemente scale per poter salire, e per non farli sentire sempre “a pian terreno”.
Alternanza Scuola Lavoro: anche noi, professionisti, siamo (dovremmo essere) sempre studenti…
C’è però un secondo argomento che ci porta a parlare di Alternanza Scuola-Lavoro, e riguarda chi lavora, magari da 10, venti, trent’anni. L’alternanza vale anche per voi: non ci può essere lavoro che non alterna un ritorno a scuola. Magari non le “scuole” come struttura, ma come filosofia formativa. Ricordate quel giorno quando avete capito di sapere, di avere capito? E’ stato il giorno in cui siete invecchiati, inesorabilmente. Bisogna tornare a studiare, ad alimentare non solo una curiosità spontanea ed istintiva (che, ci auguriamo, non può mancare mai in un mestiere creativo), ma con metodo, con finalità, con percorsi ben definiti, con obiettivi palesi da raggiungere e con esami da superare. Non è solo questione di approcci “di esigenza culturale”, come per esempio iscriversi all’Università della terza età, ma proprio di aggiornamento professionale: quello che pensiamo di avere capito, studiato, approfondito, potrebbe essere superato.
La scuola è una grande occasione, è una fucina di crescita, per tutti. E tutti noi possiamo dare un contributo, anche piccolo, per guardare al futuro con maggiore speranza, poco importa da quale parte siamo posizionati, sono posizioni “alternanti”.