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In questi giorni si è parlato tanto di copyright, grazie agli eventi che sono stati promossi e che hanno coinvolto molti professionisti in tutta Italia. E’ stata una bella iniziativa, specialmente perché è bello tutto quello che porta aggregazione per un settore che vive di solitudine (ora, in era “distanti ma vicini”, ancora di più), ma specialmente che subisce la negatività di una concorrenza che dimostra non forza ma fragilità, la stessa fragilità che di recente è stata messa in luce da parte del Nikkei Asian Review, a seguito delle complicazioni che si sono manifestate a seguito dei problemi di Olympus di cui abbiamo già parlato. I fotografi, come categoria, hanno bisogno di lavorare insieme e non “uno contro l’altro”, ma lo stesso vale anche nei confronti dei clienti: essere un “problema” e non una “soluzione” non è mai una cosa positiva.
Torniamo al copyright. In questi giorni, (prima, durante, dopo l’iniziativa in questione) si è sentito un bel senso di forza comune, per difendere i propri diritti, per ribadire che no, le immagini non si rubano su internet, non ci si appropria senza diritto (e senza pagare) del bene di qualcun altro, che gli autori devono essere sempre citati. Tutto questo è sacrosanto, e al tempo stesso rischia di essere un po’ distante dalla cultura contemporanea.
L’iniziativa Flashmob ha usato toni garbati, più contemporanei rispetto a quello che in passato è sempre stato il tema centrale del discorso sul copyright (muso duro: non mi rubare le foto, pagale!), ma è ovvio che il senso è quello: non sappiamo però se la maggior parte dei partecipanti si può o si potrebbe ritenere soddisfatto del “solo” concetto (ancora più fondamentale, alla luce della contemporaneità, come vedremo) della “attribuzione” (uso non concordato delle foto e semplice “indicazione dell’autore”), come sembra essere il punto centrale del manifesto, ma più che altro si riconoscono (sempre con il garbo apprezzato e sopra citato) sul concetto che “non si può pagare in visibilità”, e che a fronte di un lavoro ci dovrebbe essere un compenso. Il terzo punto (in realtà il secondo, nel manifesto) vuole far riconoscere il valore autorale a tutte le immagini, eliminando il concetto di “foto semplice” (non protetta), e qui si può concordare da un lato sul fatto che la soggettività nella valutazione rende difficile questa identificazione del valore autorale di una immagine, specialmente nelle mani di non esperti (può un giudice decidere se una foto è un’opera d’arte o una semplice fotografia? Su quali basi?); al tempo stesso, a volte dietro questo concetto di “opera d’arte” si nascondono delle pretese che sono prive di fondamento: ci sono fotografie anche di forte impatto autorale, dove il “fotografo” è solo, di fatto, quello che ha fatto click e tutte le scelte creative le ha fatte qualcun altro… quindi semmai si tratterebbe di “artigianalità” e non di “autorialità”.
Tutto questo, però, sebbene corretto e lecito, pone le basi per aprire una discussione più profonda: siamo sicuri che questo tipo di discorsi, fatti ahimè molto più “all’interno” che non all’esterno del settore possano portare a qualche soddisfazione pratica e concreta, oltre alla soddisfazione di “stare insieme e uniti”? La realtà dei fatti, abbiamo paura, è molto diversa. Per discuterne, però, serve leggere con la mente aperta, perché in nessun momento stiamo dicendo (e mai abbiamo pensato) che è giusto farsi rubare le foto o che il diritto d’autore non sia importante… se “leggete” questo, vuol dire che preferite rimanere in una bolla dove – come su Facebook e sui social – tutto quello che vi piace sentirvi dire passerà e tutto quello che non vi piace vi verrà nascosto… queste “bolle” di cattiva informazione portano poi alle situazioni che sono ben evidenti nel mondo, dal punto di vista sociale, politico ed economico… Quindi proviamo a ragionare in modo sensato e aperto, e poi ognuno rimarrà della propria opinione, se non saremo riusciti a fare un passo in avanti.
Partiamo da quella orribile frase usata come scudo per azzerare costi e compensi: “Uso le tue foto e in cambio ti do visibilità”, e iniziamo a dire che forse ci dovrebbe essere una differenza tra “lavora gratis” e “uso il lavoro che hai già fatto”. Nel primo caso, un “cliente” (un NON-Cliente) cerca di occupare il nostro tempo, di farci investire ore o giorni di lavoro che dovremmo dedicare al vero “guadagno” per avere in cambio qualcosa che, di sicuro, in prima battuta non ci paga le bollette o la scuola dei figli (o di noi stessi), quindi lo dobbiamo evitare quasi sempre, anche se potrei raccontarvi storie in cui delle attività fatte gratuitamente hanno portato a fatturati molto elevati, successivamente… ma vanno analizzati molto attentamente per non perdere tempo inutilmente). Nel secondo caso, si tratta di un “riutilizzo” di lavoro che abbiamo già fatto, quindi che non ci richiede un ulteriore investimento diretto. La “visibilità” è un valore, in effetti… fa male dirlo, ma lo è: avere beni preziosi e nasconderli nel cassetto non vi porterà da nessuna parte, e la visibilità non solo è quindi un potenziale da sfruttare, ma addirittura è un costo da sostenere (o da risparmiare). Quando investite nel promuovere la vostra pagina Facebook o Instagram per avere una maggiore visibilità, voi state spendendo dei soldi (o del tempo… o tutti e due), se decidete di fare un investimento per ottimizzare la SEO del vostro sito internet o pagate delle ADV a Google, non state “comprando visibilità”. Essere visibili è fondamentale, e lo sarà sempre di più, ci sono vari problemi in tutto questo: non è detto che tutta la visibilità sia positiva, che faccia del bene, che “renda”… ma da qualche parte bisogna partire e non è possibile ottenerla senza aprire la mente ad approcci più contemporanei. Quando condividete un’immagine o un contenuto sui social, la “traccia” rimane, chi vuole – se è davvero interessato, e se non lo è non sarà mai un cliente pagante – può andare a recuperare chi è la persona che l’ha pubblicata, se qualcuno invece non usa questo tipo di scelta ma scarica il contenuto e lo ricarica in propri spazi, senza usare il processo di “condivisione” della piattaforma e ancor peggio senza citare l’autore, questo è un illecito, e la legge ci viene incontro (non serve parlare di etica, ma di legge: chiaro che può essere impegnativo applicare delle procedure per garantirsi questo tipo di tutela). Già da tanti anni, però, è stato sviluppata la Creative Commons, che rispondeva già all’epoca e ora ancor di più, a questa esigenza. Invece che dichiarare che tutto quello che è di vostra “Proprietà intellettuale” non può essere usata da nessuno, la Creative Commons dice il contrario, ovvero che potete usare i vostri contenuti per qualsiasi utilizzo AD ESCLUSIONE… e ci sono delle voci che potete indicare e definire, per esempio non è possibile senza attribuire il nome dell’autore (e da qui la “visibilità”), senza scopo di lucro (se qualcuno vuole guadagnare usando i nostri contenuti devono riconoscerci almeno una percentuale o un valore), eccetera. Se volete leggere qualcosa, potreste comprare questo libretto digitale che costa solo 1.99 euro Guida all’uso della Creative Commons, potrebbe esservi utile.
Se non vogliamo visibilità, allora possiamo usare sistemi che proteggono e bloccano di più l’utilizzo, ma è probabile che chi ci perderà sarete voi, non chi “non avrà modo di usare le vostre immagini”. Le protezioni (DRM, avvocati…) sono costose, poco popolari e spesso controproducenti, se volete qui un altro libretto Content – Cory Doctorow (più che altro una serie di articoli, data di pubblicazione 2009, quindi stiamo parlando di cose che già oltre 10 anni fa erano evidenti… e non esistevano i social network o almeno non erano popolari come lo sono oggi), ci sono punti molto divertenti e fanno anche riflettere su quanto diversa è la nostra opinione in materia di diritto l’autore in funzione del dove siamo collocati: quando dobbiamo tutelare il nostro siamo delle belve assatanate, quando siamo noi che “abusiamo” del diritto d’autore altrui (scaricando puntate di serie TV, oppure musica, o scroccando le notizie leggendo i giornali al bar, o usando i software privi di licenza, anche per lavorarci…) allora diventiamo di colpo sornioni e accomodanti; lo trovate giusto?
In definitiva, sarebbe utile guardare all’orizzonte con un approccio più moderno:
1) farci riconoscere il valore del nostro tempo e della nostra competenza, con soldi e non con “promesse”
2) pensare che la visibilità è un valore, un investimento e possiamo gestirlo usando le licenze Creative Commons in modo adeguato
3) possiamo addirittura creare contenuti che nascono per essere “usati” (purtroppo, gran parte della produzione delle immagini non riesce ad avere una vera “utilità”)
E’ bene capire che siamo circondati da immagini usabili e gratis anche di altissima qualità (l’esempio di Unsplash è evidente), che ci sono tanti autori, anche bravissimi, che hanno davvero avuto successo (e soldi) facendo circolare tantissimo le proprie immagini ed è una competenza che va maturata tra i professionisti, che scuotono magari la testa dando degli “stupidi” ai giovani che lo fanno, e che possono poi essere additati con una risposta dallo stile “Ok, Boomer”, per dire – in poche parole – che chi lo fa è vecchio ed è responsabile delle condizioni in cui siamo, in termini globali, dall’inquinamento, alla crisi sociale ed economica… quindi assomiglia di più ad un tradizionale “da che pulpito viene la predica…”).
In ultima analisi, è bene capire che ci sono clienti, e NON clienti. Chi “prende” immagini, non le comprerà, quindi è inutile cercare di fare calcoli sul “non venduto” come facevano le case discografiche qualche anno fa per contrastare la pirateria di Napster (“ogni anno perdiamo xxxxx milioni di dischi che sono piratati”… non è vero, chi pirata al 99% è un utente che non comprerebbe). Dobbiamo trovare clienti che siano in grado di comprare, e per farlo devono conoscerci, scoprire quanto siamo interessanti, quanto riusciamo ad uscire “allo scoperto”. Ci sono strategie, di marketing prima ancora che di etica o di diritto, che devono essere acquisite, conosciute, portate avanti. Spotify (ne abbiamo parlato qui, facendo un confronto con il mondo della fotografia) ha mostrato come è possibile cambiare le regole del gioco, trasformando un “brutto e scorretto atteggiamento” (Napster) in un business model su cui far vivere l’intera industria della musica.