C’erano una volta le agenzie Stock, o meglio: c’era una volta la competizione tra le agenzie Stock. Non parliamo del microstock, che è un mondo con degli equilibri che si stanno ancora cercando e trovando (e che, siamo sicuri, si svilupperanno e si evolveranno anche a causa di quello di cui parleremo in questo articolo), parliamo dei grandi, dei nomi storici. Parliamo del fatto che Corbis ha venduto (qualcuno dice “svenduto”) il proprio archivio di oltre 100 milioni di immagini e 800 mila video a Visual China (più formalmente, l’acquisizione è stata fatta da Unity Glory International, che però è controllata dalla prima). Il dettaglio importante è che questo pacchetto, prima in mano a Bill Gates, entra a pieno titolo nel pacchetto dell’offerta questo gruppo che è anche da oltre dieci anni il riferimento commerciale di Getty Images in Cina, e nei prossimi mesi in tutto il mondo; contemporaneamente una società che ha investito oltre 13 milioni di dollari su 500px e che ne sta curando la sua espansione in Cina.
Per essere pratici, il mondo della fotografia di (macro) stock da oggi proporrà sostanzialmente un solo, immenso supermercato che potrà determinare politiche che potrebbero non essere solo definite come “politiche commerciali” (che già sarebbe ed è grave), ma anche politiche in termini… assoluti. In un articolo pubblicato due giorni fa su sul NYTimes si parlava delle proteste che sono divampate su questo passaggio di proprietà di un intero archivio che non ha solo a che fare con un valore economico e di proprietà intellettuale, ma anche di cultura mondiale e di libertà di espressione e di notizia. L’esempio più calzante è l’iconica immagine dell’uomo che ferma i carri armati in Piazza Tiananmen; di fatto, nell’archivio di Corbis c’è una delle immagini di questa sequenza realizzata da Arthur Tsang Hin Wah, anche se le principali sono di proprietà di Reuters. Si sa che il Partito Comunista Cinese ha cancellato da allora la vista al pubblico di queste scene, e quindi la preoccupazione si è manifestata in tanti dibattiti.
Corbis parla cinese, e ora cosa succederà al “nostro” mercato?
Cosa succederà, ora? Tra dubbi commerciali, pericolo di libertà di stampa, massificazione del prodotto, mancanza di identità e personalità degli archivi e possibili sviluppi sia per chi vende che per chi compra immagini fin a pensare alla creazione di un unico brand contenitore di tutti gli archivi finora “concorrenti” tra di loro (se Google ed Apple fondessero i loro business della telefonia, non avrebbe probabilmente senso far coesistere Android e iOS… così, solo per fare un esempio comprensibile), ci si domanda; cosa succederà all’intero comparto dell’immagine, dell’editoria, della comunicazione? Uniformità, un approccio basato solo sulla logica del “politically correct”?
Nella realtà, crediamo che sia arrivata l’ulteriore conferma del fatto che il business della vendita delle fotografie (e dell’informazione, più in generale) deve essere totalmente rivisto e reinterpretato. Perde di efficacia un approccio che aggrega eccessiva proposta, ne abbassa anche la potenzialità commerciale (più prodotti in catalogo aiutano chi rivende, ma penalizza gli autori, se avete voglia di riprendere i concetti della Coda Lunga di Chris Anderson forse è un buon momento per farlo). L’informazione non trova (sembra non trovare) sbocchi sostenibili, e i motivi sono ben chiari: tutti fanno e mostrano le stesse cose, non inseguono differenze e personalità. Da qualche giorno il Corriere della Sera ha deciso di creare un paywall per farsi pagare i “contenuti di qualità”. Hanno parlato con fiumi di parole, di inchiostro, di pixel e bit, del perché è GIUSTO pagare l’informazione (e di questo siamo super convinti, al punto che di recente ci siamo abbonati a ben due servizi di informazione a pagamento), ma mai ho letto come intendevano rendere più “QUALITATIVA” l’informazione, si parte sempre dal presupposto che quello che viene fatto è “di qualità sufficiente”, quando raramente lo è, specialmente sui principali media. Si copia, maldestramente, si traduce senza applicare la testa, si tende a non fare informazione che preveda sforzo ed impegno, e coraggio.
[tweetthis]Per combattere i supermercati dell’immagine, dell’informazione, serve trovare la forza delle botteghe artigianali, dove al centro c’è il cliente[/tweetthis]
Per combattere i supermercati dell’immagine, dell’informazione, serve trovare la forza delle botteghe artigianali, dove al centro c’è il cliente. Compro ancora le bistecche dal macellaio, per un solo motivo: lui sa cosa mi piace, io so che quello che mi consegna è migliore di quello che potrei trovare altrove. Se non posso permettermi di comprarla ogni giorno, preferisco mangiare la carne solo una volta ogni tanto. Se però il macellaio mi propina la stessa carne del supermercato, allora non ci andrò più. Ma peggio ancora sarebbe che il macellaio mi propinasse quello che “lui dice che è qualità” e a me non piace… Perché la qualità non è una questione assoluta, è relativa alla percezione della qualità, in funzione di una soggettiva esigenza del cliente. Recentemente ho dovuto spiegare ad una persona che la qualità non è “soggettiva” in assoluto, ma è “oggettiva per il cliente/fruitore”. Se io, cliente, percepisco la qualità del prodotto che mi viene offerto, allora lo compro e ne sono soddisfatto.
[tweetthis]Bisogna fare cose che il pubblico richiede, o che il pubblico, anche quello di nicchia, può trovare così interessante da desiderarlo (e pagarlo)[/tweetthis]
Non serve quindi – per combattere la concentrazione dei poteri – solo fare cose diverse, bisogna fare cose che il pubblico richiede, o che il pubblico, anche quello di nicchia, può trovare così interessante da desiderarlo (e pagarlo), non quello che semplicemente “piace a noi”. Questo fenomeno è già in atto, sta diventando sostenibile e quelle che sembrano delle cattive notizie sono invece ponti che possiamo attraversare per migliorare.
Corbis, Getty… è ora di andare oltre, e tutti sono invitati a questo banchetto, che sarà consumato dalla fetta migliore del mercato. Rimangono tanti dubbi, ma deve finire anche l’abitudine di giustificare che tutto va male per colpa di altri, più grandi o sopra di noi.
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