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Foto da usare "liberamente": è davvero questione di insostenibile leggerezza dei pixel?

Lo ammetto, sono arrivato tardi, ma non per questo l’argomento si può considerare già “spento”. E, poi, cerco di affrontarlo da un altro punto di vista. Ammetto un’altra cosa: ho ricevuto questa segnalazione direttamente sull’iPhone prima di Natale, e quando ho iniziato a leggere mi è venuta la nausea: sono una persona che quando arriva ad un momento di stanchezza da fine anno, non riesce ad assorbire quasi più nulla, ma specialmente alcune cose mi urtano lo stomaco;  ho lasciato quindi la pagina web aperta sul mio smartphone fino a oggi, quando ho deciso che avevo superato la crisi e quindi potevo dire la mia. Nel frattempo, l’argomento è stato discusso, ci sono centinaia di commenti a seguito del post del giornalista de La Repubblica Michele Smargiassi che – a seguito di una discussione sull’uso indebito di fotografie sulla testata in questione – ha spiegato a noi, mondo di ignoranti (almeno dal punto di vista digital-culturale), come “girano le cose“.

A questo post, hanno risposto molti fotografi, e anche ufficialmente Tau Visual, che ha dato il consiglio di mandare una lettera all’editore per contestare e per “spiegare” le motivazioni che portano a difendere i concetti (così elementari) del diritto d’autore. Per fortuna, quindi, le cose “serie” sono state già fatte, e quindi per un istante mi sono detto… bene, pensiamo ad altro. Ma non ce la faccio, perché il tema in questione non è questo…

Chi conosce questa rubrica, sa bene che abbiamo una posizione molto aperta e addirittura radicale nei confronti della logica della difesa e della tutela del diritto d’autore, dal punto di vista puramente “pratico”, non da quello etico, che invece troviamo un elemento fondamentale e civile. Siamo contrari alla burocrazia e alla mancanza di efficienza pratica offerta (specialmente ai piccoli autori, non ai grandi gruppi che detengono i diritti “che pesano”) dalla SIAE e dalle entità analoghe. Ancora stiamo aspettando risposte ufficiali a questa polemica, ma andiamo anche oltre: crediamo, abbiamo difeso, promosso e spinto in qualsiasi evento e incontro l’approccio liberale e contemporaneo della Creative Commons, questo spazio e tutto il sito è tutelato proprio da questo tipo di licenza che amiamo descrivere sempre con queste parole semplici: “invece che proibire la copia, consentirla a patto che vengano rispettate alcune condizioni di base, che vengono definite in modo chiaro“. Nel nostro caso, chiunque può copiare, ripubblicare ridistribuire qualsiasi contenuto, a patto che venga citato l’autore, che non ci sia un’attività lucrativa alle spalle di questo riutilizzo (semmai, parliamone, saremo contentissimi di fare qualche soldo insieme!) e che non vengano apportate modifiche (e questo è l’ultimo step che prima o poi dobbiamo imparare a digerire… le opere derivate in modalità di Remix possono essere di fatto molto interessanti e permettono la crescita a tutti; semplicemente, ci dobbiamo ancora abituare all’idea).

Abbiamo anche detto che il problema non sia quello della difficoltà – oggettiva – del difendere un contenuto digitale, specialmente se distribuito in rete, ma che è spesso controproducente farlo: ci sono strategie che possono portare molti più risultati, e anche più reddito, concedendo invece che cercando di reprimere. Alcuni mondi creativi e autorali, per esempio la musica, hanno spesso trovato strade che hanno portato risultati molto positivi proprio in questo approccio “permissivo”, ma non vogliamo ripeterci, se vi fa piacere potete saltellare tra i link che vi abbiamo segnalato finora, oppure facendo delle ricerche sul nostro sito. Insomma: siamo persone che hanno dimostrato di credere, e non da oggi (abbiamo iniziato a parlare di Creative Commons molti anni fa, quando davvero se ne parlava poco, abbiamo partecipato a tutti gli incontri con personaggi che hanno aperto questi orizzonti, da Lawrence Lessig, a Cory Doctorow, abbiamo letto e regalato in varie copie i loro libri). Insomma, se ci permettiamo di affermare alcune cose, speriamo che quantomeno ci venga riconosciuto un posizionamento e un orientamento che non è certo “bacchettone”, e poco “digital”.

Beh, detto questo, sono sconfortato dal vedere, nel post in questione, tante (troppe, nel senso che ho trovato qualcuno più prolisso di me, che è già un record negativo), parole che pur prendendo la strada giusta, arrivano a conclusioni così prive di senso che ci domandiamo… ma come è possibile? Oltre 16 mila battute (ok, un po’ meno, perché in questo conteggio c’è anche riportata la lettera dei fotografi, ma da leggere comunque sono sempre in totale 16 mila battute, gli amici di 40k con tre post così ci confezionano un libro!) per giungere a delle conclusioni che non considerano un punto fondamentale: che gli autori hanno il diritto, sacrosanto, di decidere in piena autonomia se le proprie opere (che possono essere opere d’arte o delle schifezze… sempre opere di ingegno sono, se ci fosse una legge in grado di identificare il vero valore, saremmo a cavallo!) possono o meno essere usate e pubblicate, e in quali termini. Non è possibile leggere così tante parole saccenti che mettono in evidenza un punto di vista, rispettabilissimo, ma che non contempla un elemento così “basic”: senza questa premessa, tutto perde di valore. L’apertura della rete, che non solo difendiamo, ma che promuoviamo, è una strada che deve giustamente essere percepita dagli autori (i fotografi sono i primi che dovrebbero approfondire, ma è uno scoglio difficile, lo sappiamo bene, ma li stiamo aiutando da anni a fare questo passo, a piccole dosi… perché lo scontro culturale non porta mai a risultati veloci, ma solo ad un indurimento delle posizioni). Ma, rimane, un diritto: quello di aprire gli orizzonti, e quello di non aprirli.

Possiamo discutere se l’iperprotezione porta vantaggi o svantaggi (secondo noi, svantaggi: vede, signor Smargiassi, siamo dalla stessa parte), troppo spesso si fanno lotte per difendere non solo dei diritti (alla fine, e lo vediamo tutti i giorni, il lato etico viene arginato facilmente e con leggerezza, se ci sono interessi economici o di altro genere, non siamo mai dei santi), ma addirittura per cercare di difendere un business che poi in realtà non viene sviluppato. Si chiudono le fotografie nei cassetti per paura che “ce le rubino”, ma poi noi non le vendiamo e quindi… a cosa serve? Tutto valido, ma gli elementi di base sono (e se non vengono evidenziati a chiare lettere, tutto il discorso si perde non nell’insostenibile leggerezza citata dal titolo, ma dall’incoerenza (non dei pixel, ma dei caratteri  – 16 mila – che riempiono quella pagina di blog). Altra cosa, un conto è “prendere” una foto per metterla sul proprio desktop, un altro è pubblicarla su un mezzo di informazione che ne trae un guadagno concreto.

Ci sono poi delle ingenuità, che non capisco se sono di fatto mancata conoscenza, ingenuità o tentativo di depistaggio; per esempio la domanda che fa, segnalando “che la risposta non è scontata”, e cioè :

“…se repubblica.it, anziché riprodurre le vostre foto, avesse solo inserito un link ai vostri siti, le vostre foto non sarebbero state ugualmente viste gratis?”

Se si mettono delle foto sui siti personali, su Flickr o su qualsiasi spazio in rete che ci rappresenta – suvvia, è così ovvio – lo facciamo con un approccio di condivisione e di promozione che non è paragonabile con l’uso (abuso) da parte di una testata giornalistica che la usa per “farsi bella”. Cito solo questo esempio, anche se – davanti a una birra o a un caffé mooolto lungo – potrei amabilmente dare risposte anche agli altri quesiti, segnalando quando siano poco coerenti, dal punto di vista pratico, tali quesiti.

Il fatto che il mondo dell’informazione e della comunicazione sia e stia cambiando radicalmente porta sicuramente alla necessità di discutere trasversalmente delle problematiche che invadono ogni comparto produttivo e professionale, e probabilmente (sicuramente) le sfaccettature frutto di specifiche e differenti esperienze sono da considerarsi come arricchimento, ma non si può partire dalle basi sbagliate per spiegare concetti giusti, perché se no si arriva a fare solo più confusione. E il tutto mi ricorda una pagina di un libro meraviglioso, Il pendolo di Foucault

, di Umberto Eco. Non cito chi è, per il grande scrittore, quello che:

“…non dice che il gatto abbaia, ma che parla del gatto quando gli altri parlano del cane”

oppure quello che:

“… dice che tutti i cani sono animali domestici e tutti i cani abbaiano, ma anche i gatti sono animali domestici e quindi abbaiano”

ma il senso è che mi sembra (ma, forse, siamo noi che non capiamo, nel caso chiediamo perdono) che ci sia un po’ di confusione concettuale, seppur ne leggiamo la buona fede e non crediamo che ci sia malizia o voglia di difendere una categoria (quella dei giornalisti, o degli editori), che è indifendibile quanto quella dei fotografi. Già, perché se è vero che il mondo cambia, questo è validissimo come preoccupazione anche o specialmente per i giornalisti, per gli editori, per chi fa informazione di ogni genere. A meno che non lo faccia dannatamente bene, e per “bene” non intendiamo solo occuparsi di cose che davvero si conoscono, studiate, comprese ed espresse in modo chiaro (e anche semplice, se possibile… la semplicità non è povertà, ma la principale ricchezza), ma anche usando logiche e strategie che permettano che la rete possa diffondere positivamente il valore e che quindi ne consenta – usando metodi tradizionali o super innovativi – la monetizzazione dello sforzo e della professionalità.