Si può comprare la tecnologia a pezzi? Finora no, e anzi: il business model della tecnologia è sempre stato al contrario quello del creare un invecchiamento di alcune componenti per stimolare un nuovo acquisto. Molti degli strumenti che abbiamo, ad un certo punto invecchiano, e siamo portati ad accontentarci di avere modelli inferiori, oppure fare il salto e cambiarli completamente.
Certo, non tutto è così: i computer autocostruiti, per esempio, possono essere modificati al loro interno; si cambia il processore, la scheda grafica, un po’ tutto (compreso il case), ma si tratta di un’azione che richiede esperienza e competenza: di solito, gli utenti comprano una scatola pronta e la usano, e al massimo intervengono (o fanno intervenire) sul potenziamento della RAM o dell’hard disk. Alcuni computer, nemmeno consentono tale intervento, e la strada sembra sempre più ostica se guardiamo all’evoluzione dei tablet, che sono ancora più “chiusi”, in particolare quelli di alcune aziende (Apple su tutte).
Altri prodotti, però, sono ancor peggio dei computer: pensiamo ai cellulari, ma anche alle lavatrici, ai televisori, alle automobili: così come nascono muoiono, semmai – se si rompono – si possono sostituire i pezzi con identici ricambi originali. Inutile dire che le fotocamere non sono da meno: solo i dorsi digitali, hanno proposto nella storia, aggiornamenti che permettevano per esempio l’aggiornamento dei sensori, ma si trattava di una procedura più vicina ad una “nuova vendita mascherata”: in pratica, l’utente che faceva l’upgrade pagava, è vero, meno di un dorso digitale nuovo, ma considerando che il sensore era il costo principale del prodotto, alla fine l’impegno economico era comunque significativo. Altri casi, non ce ne sono: dalla nostra reflex di 3 anni fa con 12 milioni di pixel non possiamo staccare, come un pezzo del lego, il sensore vecchio e sostituirlo con uno nuovo. Ci sono, ovviamente, motivi anche sensati: per esempio l’architettura che supporta files da 12 milioni di pixel (processore, bus interno, velocità dei lettori di schede, eccetera…), in realtà potrebbe non risultare efficiente per il doppio della risoluzione, e quindi rendere la fotocamera non più funzionante correttamente.
Eppure… eppure qualcuno sta pensando che tutto questo potrebbe essere possibile: prima ci ha pensato un ragazzo olandese, Dave Hakkens che ha sviluppato il progetto Phonebloks: un cellulare “modulare” che mostriamo nel video di questo articolo; poi questo progetto futuribile è stato re-interpretato e sviluppato in casa Motorola, che oggi però torna a casa di Google (dopo che questa ha ceduto la divisione Motorola a Lenovo, un mesetto fa), che sta sviluppando un concetto molto simile, anche se meno “open source” che si chiama Project ARA che promette, entro un anno circa, telefoni cellulari a partire da 50$, ma specialmente prodotti che possono crescere ed evolversi in funzione delle esigenze (crescenti) dell’utente. Se, per esempio, una persona non sente l’esigenza di avere una connessione Bluetooth, perché dovrebbe comprarla? Potrebbe evitare un costo; lo stesso vale per lo schermo: magari ci basta un monitor a risoluzione media, perché non prevediamo di usarlo per leggere testi molto piccoli, e anche in questo caso il costo potrebbe ridursi. Al tempo stesso, se un giorno queste esigenze di minimalismo cambiano, si può fare un upgrade e aggiungere, potenziare, completare, sostituire.
Il progetto è assolutamente entusiasmante, e sarebbe bello vederlo sviluppato anche in ambito fotografico: se pensiamo a quante caratteristiche e funzionalità potrebbero essere tralasciate in fase di acquisto iniziale, per poi magari considerarle importanti in un secondo momento. Si potrebbe scegliere, come compromesso, un’ottica di pregio insieme ad un sensore di minore risoluzione, oppure un sistema di ripresa che lavora meno bene in condizioni di poca luce perché ipotizziamo un uso solo in condizioni ideali, un otturatore non così robusto perché, se proprio finiremo con lo scattare tante foto (e non è detto), potremmo anche sostituirlo in un secondo tempo, come gli ammortizzatori dell’auto. Cambierebbe anche il rapporto tra utente e tecnologia: il primo saprebbe quello che davvero gli serve, senza comprare tutto insieme (e spesso finendo con l’usare solo una piccola percentuale del prodotto comprato). E sarebbe una crescita culturale non indifferente!
Vedremo mai le fotocamere a pezzi?
Il problema è che, purtroppo, la cosa non funzionerà, o meglio: sarà un trucco da prestigiatore, perché (nel caso esca davvero sul mercato) rivelerebbe altrimenti che i componenti singoli di un prodotto complesso come un cellulare o una fotocamera sono, in realtà, irrilevanti rispetto al costo globale. E’ un po’ come il costo di un piatto raffinato in un ristorante di lusso: i grammi dei vari ingredienti, sommati, non fanno che una percentuale minima rispetto al costo globale del piatto che si paga alla fine sul conto. Un cellulare (lo stesso vale per un computer, per una fotocamera, per una lavatrice) non costa la somma esatta (e nemmeno simile) delle singole componenti. Molti si divertono a individuare il costo “di costo” di apparecchiature famose, per esempio si stima che un iPhone 5s a Apple costi circa 199 dollari di “pezzi”, quando poi lo si paga oltre 700 euro in negozio. In questa cifra ci sono ovviamente dei costi “nascosti”, che non sono la sola ferraglia, come per esempio la ricerca e lo sviluppo, la pubblicità, il marketing, la confezione, eccetera… Ma se dovessimo far pagare a parte la componente Bluetooth, magari potrebbe avere un costo di 1 euro… e allora chi ci rinuncerebbe? Invece, quel pezzettino del lego, anche perché dovrà essere confezionato sia dal punto di vista dell’oggetto (una componente per contenerlo, un connettore per fissarlo, una parte da sostituire sul telefono che “occupava” quel posto vuoto, la confezione, la spedizione…) costerà 20, 30, 40 Euro… Insomma, si tratta, crediamo, di un gioco e poco di più: forse non nella testa del ragazzo olandese che lo ha “inventato”, ma di sicuro molto di più nella testa dei ragazzi di Google, che i conti economici li sanno fare bene.
Però tutto questo fa sognare, credere che il futuro possa essere più “personalizzato”, e anche qui c’è un limite umano (di molti umani): avrà successo un prodotto che potrebbe essere diverso, e più costoso, anche se all’esterno non risulterebbe tale? Purtroppo (e ribadiamo purtroppo, non siamo certo d’accordo, solo osserviamo i fatti), una delle motivazioni di acquisto è dato dall’effetto che causa allo status symbol: si compra una borsa, un vestito, un computer, un cellulare e una fotocamera anche perché ci si distingue dagli altri, dalla massa. Riuscirà il mercato a diventare così maturo? Quando tenta di esserlo, si cade esattamente nello stesso schema, ma al contrario: quelli che si dichiarano contro, che vogliono non essere schiavi del consumismo, alla fine diventano schiavi del non voler essere consumisti, si preoccupano degli altri e dell’opinione (favorevole o critica, poco cambia) esattamente come le persone che tanto criticano. E’ difficile trovare l’equilibrio, e di conseguenza è difficile ipotizzare il successo per un prodotto che davvero possa rivoluzionare l’approccio e la modalità di acquisto. Alla fine, è più facile, e anche più economico, proporre varie tipologie di prodotto, già pret-a-porter, per ogni fascia di utente.
Sarebbe però bello, che possa crescere il mondo e i suoi abitanti. Portare una cultura che permette a tutti di desiderare ed avere quello che davvero hanno bisogno di possedere, senza orpelli e aggiunte. Senza invidie e senza sperpero. Dove ogni elemento che abbiamo ci permette di raggiungere quello che ci siamo prefissati, con l’opportunità – strada facendo – di poter crescere, aggiungere, senza buttare ma solo aggiungendo e migliorando. Passo dopo passo. L’industria e il mercato, probabilmente, non sono il territorio ideale per far partire questa crescita ed evoluzione della specie; dobbiamo farla crescere da dentro di noi, in tutti noi, nel modo di essere, nel rispetto di quello che abbiamo attorno. Siamo in un periodo in cui forse questa sensibilità inizia a venire fuori, ma c’è tanto lavoro da fare. Forse non ci riusciremo noi, forse ci riusciranno i nostri figli… iniziamo ad educarli in questo senso ;-)
Vittore Buzzi says:
Interessante concetto. Vedo che molti ci stanno pensando e anche in maniera creativa. Mi viene in mente il tentativo della Ricoh di costruire una macchina modulare. Sarà difficile ma sarebbe bello. Richiede però un totale ripensamento della progettazione delle macchine e degli impianti di produzione.
Se siete interessati leggettevi anche questo http://www.fotozones.com/index.php/page/articles.html/_/articles/photolosophy/why-arent-camera-makers-thinking-out-of-their-boxes-r43
ale says:
A me la conclusione del tuo discorso, Luca, ha fatto venire in mente Giorgio Gaber ed il suo dialogo sul pelo, e ad oggi mi viene difficile pensare che l’uomo riesca ad evolvere da quella condizione, comunque provare a cambiare e migliorare le proprie abitudini non è un reato e non costa niente, quindi perché non provare?
Luca Pianigiani says:
No, non è reato: anzi! L’unica strada per riuscire è proprio quella di provare. :-))
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