La fotografia ha sempre svolto un ruolo importante nel cristallizzare un ricordo, per consentire di riviverlo e di condividerlo. Eppure, negli ultimi anni, la cultura digitale ci ha portati ad usare le immagini (foto o video) con una scadenza. Prima Snapchat, e poi Instagram (per non dire tutti gli altri che hanno copiato il meccanismo) hanno iniziato a imporre l’idea che le immagini postate rimangono on line per breve tempo, e poi spariscono, si dissolvono, si sciolgono. E con questo, anche la memoria. Ma c’è qualcosa di più profondo di questo, che pur è un fenomeno importante. Proviamo a scendere un po’ più in profondità.
La mente umana è bizzarra: uno dei meccanismi della memoria porta in certi casi a svuotarsi quando per esempio si trasferisce volontariamente ad una unità esterna la responsabilità di questo tassello. Quante volte si dice a qualcuno… “mi ricordi di fare questa cosa?” E una volta che questo passaggio di responsabilità viene delegato ad altri, noi tendiamo a dimenticarci di quel fatto, si preoccuperà il “delegato” di ricordarcelo. Con la fotografia spesso accade lo stesso: si scattano delle fotografie per ricordare un evento, e la memoria della fotocamera (o la pellicola/stampa) ne raccoglie l’eredità. Sarà poi l’occasione del ritrovare quel contenuto, archiviato in un hard disk o in un cassetto, a farlo rivivere. Per questo, se deleghiamo quei ricordi ad una piattaforma che di natura distrugge e non conserva, il pericolo di perdere migliaia di momenti importanti della nostra vita. – nostra, intesa come collettività, non solo come individualità – è davvero immenso.
Ma alcuni ricercatori ci aiutano con altri strumenti di analisi che ci permettono di fare un passo in avanti, in questa analisi. Per esempio, uno studio condotto nel 2013 dalla professoressa specializzata in neuroscienze Linda A. Henkel della Fairfield University segnalava come studi condotti su un campione di utenti in una visita ad un museo hanno dimostrato che questi ricordavano meglio oggetti, dettagli e posizioni quando li avevano solo osservati, mentre il ricordo era più debole quando gli stessi oggetti erano stati fotografati (il PDF, in inglese, si può scaricare da qui: Point-and-Shoot Memories: The Influence of Taking Photos on Memory for a Museum Tour). Questo confermerebbe quanto scritto prima, ovvero che se ci affidiamo a “memorie esterne” il cervello sembra scaricarsi e liberarsi, e quindi dimentica, tecnicamente viene chiamato “scarico cognitivo”. Tuttavia, quando i partecipanti sono stati invitati a zoomare nelle fotografie scattate inquadrando/selezionando una zona specifica dell’oggetto la memoria è riaffiorata, recuperando quindi quanto sembrava perso. Ancora più complesso, quindi… deleghiamo, dimentichiamo, azzeriamo, ma nella realtà sembra che il cervello si comporti proprio come una memoria di un disco, che quando “cancelliamo” di fatto non lo facciamo sul serio, se non quando risalviamo sopra altri contenuti in sostituzione dei precedenti (ed è per questo che la cancellazione di un file in realtà permette spesso il suo recupero).
Ma ora veniamo ad un ulteriore step: i ricercatori Julia S. Soares e Benjamin Storm, del Department of Psychology, University of California, Santa Cruz, hanno recentemente pubblicato un interessante risultato di uno studio dal titolo Forget in a Flash: A Further Investigation of the Photo-Taking-Impairment Effect, che può essere scaricato (a pagamento, US$31.50), dal quale si evince che se è vero che la cancellazione della memoria non è “solo” legata ad un trasferimento di questa responsabilità ad un’altra memoria (quella della fotocamera), e nemmeno al fatto che si utilizza una piattaforma che ha come propria caratteristica la cancellazione delle immagini. Quello che succede è quello che è stato definito un “disimpegno attenzionale”, la ricerca suggerisce infatti che interagire con una fotocamera o uno smartphone distoglie le persone dall’essere presente dalla “realtà”, arrivando quindi a compromettere la formazione della memoria, e il coinvolgimento operativo per la pubblicazione su Instagram o Snapchat (applicare filtri o messaggi) rende ancora di più evincente questo scollamento dalla realtà.
E’ sempre stato così: ricordiamo una battuta che diceva, tanti anni fa:
Fotografo per vedere e ricordare quello che non vedo quando vado in giro perché lo sto fotografando.
All’epoca, si prestava attenzione alle componenti tecniche (tempo, diaframma, messa a fuoco, numero di fotogrammi che mancavano alla fine della pellicola), ora si smanetta con le funzionalità di pubblicazione sui social. Quello che cambia, ma solo nelle quantità, è che si producono molte più immagini, e specialmente la motivazione: non si fotografa per ricordare quello che non si osservava perché si stava fotografando, ma per postare le nostre esperienze e la nostra vita, a disposizione del nostro “pubblico”. Non lo facciamo per noi, o meglio: lo facciamo per apparire, per raccontarci, per creare una storia interessante che ci vede come protagonisti.
Il nostro futuro ci lascerà senza memoria? Viviamo solo di presente e nemmeno questo perché nemmeno siamo presenti realmente, visto che siamo troppo impegnati a documentarci e a pubblicarci? Soluzioni?
Potremmo scegliere di evitare del tutto i social media, ma è quasi impossibile farlo (o anche solo crederlo), si può però cercare di essere più giudiziosi facendo delle scelte oculate dei momenti che preferiamo non vivere completamente, accettando di avere una barriera tra noi e la realtà: una barriera/filtro chiamato schermo. In altri casi, da scegliere con convinzione e passione, di fare un passo indietro, di non pensare costantemente alla necessità di pubblicazione, perché, a volte, le cose sono migliori da vivere nel momento in cui accadono. La seconda soluzione, più vicina al nostro ruolo di “cronisti”, è di proporre il proprio ruolo professionale in un’ottica rinnovata, sostanzialmente all’insegna di:
“Voi vivete, noi ci preoccupiamo di documentare”
A volte, un ritorno al passato, rinnovandosi, è la strada giusta.