Non è un caso, ma in questo periodo sono di moda i ritorni al passato. Un recupero della storia, un modo per differenziarsi, una valorizzazione dell’imperfezione perché siamo stufi di perfezione. Tutto, ormai, è scontato, non si crea stupore, e quindi nemmeno magia. Che noia, che banale.
La fotografia non è mai stata un’interpretazione fedele della realtà, ma siamo andati oltre: ormai pensiamo che sia reale la falsa realtà che la fotografia ci offre: se fotografo qualcosa, questo sembrerà perfettamente reale e quindi… sarà vero. E questo viene alimentato da una immediata condivisione con il mondo esterno, come una conferma che quello che abbiamo creato – una reale falsa realtà – è realmente “vera”. Un modo per trasformare in realtà qualcosa è creare una “fonte” che qualcuno certifica. Volete far sapere a tutti che siete il più bravo fotografo al mondo? Aprite una nuova pagina su Wikipedia dedicata a voi, e scrivete qualcosa di decisamente credibile e, tra le cose, indicate che siete stati insigniti da qualcuno del premio “migliore fotografo al mondo”. A questo punto, dovete trovare qualcuno disposto a scrivere qualcosa, che va a richiamare questa informazione, questa “realtà” che vi siete inventati voi stessi, e una volta che un blogger, una rivista on line, qualche persona desiderosa di scrivere qualcosa ad effetto che non ha il tempo (nessuno ha tempo) e la voglia (nessuno ha voglia) di verificare l’efficacia e la veridicità della fonte, e il gioco è fatto; basterà tornare – una volta che la “preda” è caduta nella trappola e ha pubblicato – sulla stessa pagina di Wikipedia e aggiungere quel link come fonte… di colpo la realtà (falsa) diventa una realtà “Vera”.
In questo panorama di falsità che viene accettata come verità, l’unica strada per uscire dagli schemi è quella di creare una vera “realtà” alternativa che non ha nulla a che vedere con il tentativo di voler essere considerata una realtà. Abbiamo bisogno – tutti – di fantasia, di alternativa, di viaggiare con la fantasia. Di dire: ok, è tutto finto, ma proprio perché appare non reale, potrebbe contenere valori ben più profondi. Per riuscire a farlo, bisogna distaccarsi dalla realtà apparente, dal contenitore di plastica, dal packaging, dalla superficie. Dobbiamo togliere l’effetto patinato, dobbiamo togliere bit.
Applaudiamo, sorridendo, ad una nuova app per iPhone chiamata BitCam che permette di “scattare fotografie”, uscita un paio di giorni fa per festeggiare i 20 anni di una società storica, Iconfactory (ha disegnato tra le più belle icone al mondo, e alcuni software ed app interessantissime). C’era bisogno di una nuova app per “scattare foto”? Non ce ne sono già migliaia e migliaia? Questa è interessante perché ci fa tornare indietro ad un mondo fatto di pochi bit, 16 (ora siamo a 64) ma anche meno, per la versione degli scatti “FatBit” (Bit “grassi”), per omaggiare un universo che aveva in MacPaint (sviluppato dal mitico Bill Atkinson per il primo Macintosh, nel 1984 e “disegnato” nell’interfaccia dall’altrettanto mitica Susan Kare) il suo centro. Bellissimo il percorso di presentazione di questa applicazione, a partire dalla pagina Internet di promozione, in puro stile “vintage”, alla definizione delle funzionalità (come “self camera” per usare la fotocamera frontale).
L’app ci fa tornare indietro, di 20 e più anni, verso un’ingenuità dell’immagine digitale, distante un universo da quello che viviamo oggi, che vomitiamo sui social network, che usiamo per inventare una realtà che è solo finzione. E’ gratuita, per la sua versione base che “scatta” solo in bianco e nero, ma poi volendo potete potenziarla con un acquisto in app (1.99 euro) per avere anche la versione a colori, che davvero è strabiliante.
Potreste scoprire un nuovo mondo (o ritrovarlo, se avete qualche capello bianco), dove il contenuto dell’immagine, del messaggio, della comunicazione diventa primario, e non la forma, non quell’approccio di ricerca di una perfezione che si accontenta solo di rimanere in superficie.