Quando si parla di “ritratto”, ormai sono anni che le persone dicono: “Grazie, faccio da me”. Si tratta del settore della fotografia più popolare, quello del “selfie”, una disciplina che ha portato ad un cambiamento sociale: si sa sempre meno del mondo, ma si sa sempre più della nostra immagine, si conosce ogni dettaglio della propria migliore o peggiore espressione, si sa se si deve guardare di fronte, di lato, verso l’alto per apparire più convincenti, o più piacevoli o, ancora, più sexy.
Una volta, la ritrattistica, era un mestiere, uno dei principali settori della fotografia; per fortuna (per i fotografi) non sempre è possibile far tutto da soli, non ci sono aste lunghe a sufficienza, oppure talvolta bisogna pur (almeno per finta) fare altro che non fotografarsi. Sarà così anche in futuro? In realtà, la domanda è più profonda di quello che potrebbe apparire, la concorrenza non è più solo legata alla mania del selfie, il problema è che attorno all’argomento si stanno concentrando davvero molte (tante, forse arriveremo a dire troppe) attenzioni.
Probabilmente molti di voi avranno letto, guardato, sbirciato le novità presentate da Apple con le sue due nuove generazioni di smartphone, dettagliatamente il semi nuovo iPhone 8/8plus (le novità sono il vetro che torna anche sul retro del telefono per consentire la ricarica wireless, un potentissimo processore tutto nuovo che è più potente di un Macbook Pro da 13” di ultima generazione… sono ormai anni che lo diciamo, prima o poi ci crederete tutti) e poco altro, e poi il futuro iPhone X che sarà disponibile verso la fine dell’anno. Chissenefrega degli smartphone – dirà giustamente qualcuno – però rimaniamo un attimo sulla questione del “ritratto”, quindi non solo della fotografia generica ma quella che ha a che fare con la riproduzione (interpretazione, sarebbe meglio dire) di un viso. Bene, avrà fatto effetto, se avete visto il keynote, scoprire che l’accoppiata tra hardware (obiettivo, sensore, eccetera), software e potenza del processore consente di fare qualcosa che i più, specialmente gli esperti, avranno bollato come un “gioco da dilettanti” (anni fa, dissero – persone fortemente accreditate in questo settore professionale – che anche la ripresa video con le reflex era “un gadget per i dilettanti”): cambiare l’illuminazione della scena. Vedendo i primi esempi, in effetti non sembra poi così emozionante quanto ha voluto dirci Phil Schiller, un fotoamatore appassionato di reflex di fascia alta che nel tempo libero è a capo del marketing di Apple. Effetti un po’ estremizzati, come l’effetto “portrait” con bokeh e sfocatura del fondo che è stato proposto già lo scorso anno con la generazione 7 plus.
I risultati, ancora molto “beta”, di questa tecnologia che in pratica applica correzioni sull’illuminazione dei visi/ritratti, promettono risultati “come quelli che si otterrebbero in studio con un parco di luci professionali e una reflex” (hanno detto così, come se la luce fosse direttamente collegata alla ripresa con una reflex…). Qualcuno avrà sorriso, noi no… perché il nostro mestiere è quello di guardare oltre a quello che ci viene mostrato, di percepire il percorso e la visione. Fate un collegamento: qual è una delle principali rivoluzioni dell’innovativo iPhone X? Il riconoscimento facciale (Face-ID, in sostituzione dell’impronta digitale). E qual è la vera grande innovazione di iOS 11, resa disponibile pochi giorni della presentazione dei nuovi telefoni (e che si sposa alla perfezione – esclusi qualche inconvenienti di gioventù che abbiamo già avuto modo di verificare – anche alle generazioni precedenti di smartphone e tablet della Casa? La realtà aumentata.
Bene, mettete insieme realtà aumentata, la capacità – grazie all’intelligenza artificiale, continuiamo a tornare su questo tema – di riconoscere un volto tra un milione di visi (ad esclusione di Craig Federighi, il capo supremo del software di Apple che non è “stato riconosciuto” proprio nella presentazione di questa tecnologia sul palco del Keynote, ma questa è storia che fa parlare ma che non toglie nulla ai fatti concreti, lo dimostrerà l’utilizzo pratico), un processore “bionico” (in grado di essere anche più veloce di un MacbookPro d 13” di ultima generazione) che analizza in tempo reale miliardi di informazioni, garantendo un processo di analisi e di previsione del risultato sulla “fotografia di ritratto” che potrà solo evolversi alla velocità della luce. Quando facciamo (ne facciamo ancora?) un ritratto su commissione, qual è la nostra analisi? Cosa facciamo per trasformare questa operazione in qualcosa di davvero unico e meraviglioso? Avremo sempre più davanti qualcuno (qualcuna) che avrà passato ore ed ore a trovare la propria migliore rappresentazione, e quindi nel migliore caso ci darà qualche bonario consiglio per “fare un più efficace ritratto”. Avremo tecnologie di analisi facciali, che sfrutteranno studi e sviluppi nati per motivi molto seri e scientifici – il controllo dell’identità – che si integreranno, avremo una mappatura 3D del viso per capire come modificare ombre e luci per mettere in evidenza i pregi e nascondere i difetti. La bandiera bianca è pronta per essere sventolata?
Qualcuno, giustamente, dirà: un ritratto è molto di più di un algoritmo di calcolo e di una mappatura 3D, un occhio allenato può essere molto più funzionale di mille sensori che analizzano e ricostruiscono una scena. E’ vero, assolutamente vero (se è vero: non basta dirlo a parole)… anche perché per fortuna la nostra cultura visiva si basa (si dovrebbe basare) su un bagaglio pressoché infinito, miliardi di foto viste e valutate “umanamente” e ancor di più riferimenti ad altre forme visuali parallele: il cinema, la pittura. Perché ovviamente (qui vi chiedo di percepire la titubanza che abbiamo nello scrivere beffardamente questo “ovviamente”), i fotografi professionisti – tutti, proprio tutti – hanno una cultura visiva che si alimenta dell’arte visuale a tutto tondo… E’ così? Oppure molti fotografi, che si dichiarano tali e per di più “professionisti”, hanno fatto vincere la pigrizia culturale, si accontentano di inseguire approcci tecnici o di difendere atteggiamenti e trovare scuse del perché il mercato ormai si è impoverito? Quanto tempo passa la maggior parte dei fotografi a studiare storia dell’arte, a capire come si realizzano ritratti in Europa, in Asia, in Africa…? Perché questo è quello che stanno facendo i tecnici, quelli che stanno pensando alle nuove generazioni tecnologiche, che vorranno far finire nelle tasche di milioni di persone, non nelle fotocamere dei professionisti. Quei cattivi ragazzi della Apple (e ovviamente non solo loro, ne vedremo delle belle, come sapete Google ha acquisito HTC e quindi dal 4 ottobre ci sarà un’altra grande azienda che potrà sviluppare sia la componente software che hardware in casa) hanno infatti messo sotto gli ingegneri che non hanno lavorato solo con i bit e i pixel, ma si sono studiati come gli artisti hanno usato la luce per i loro ritratti, da quelli vicini a noi (Avedon, Leibovitz) a quelli della scuola olandese della pittura, tra questi ovviamente in primis Vermeer (qui sotto, uno dei suoi quadri più famosi).
Scott Hartley, imprenditore e saggista (che ha lavorato da Google, Facebook e alla Casa Bianca), ha recentemente dichiarato:
«Dedalo era un grande tecnologo abile nel costruire ali con la cera, ma anche saggio nello spiegarne l’uso prudente. Il figlio Icaro fu abile nel volo ma non saggio e finì male. Abilità tecnica e saggezza sono due cose diverse. In Silicon Valley prevale l’abilità tecnica: sono ossessionati dalla costruzione di ali sempre nuove e confondono questo con la conoscenza, la saggezza».
Oggi abbiamo piccole macchine (almeno nelle dimensioni) che fanno riferimento a Vermeer per decidere come intervenire su una fotografia che ancora non è stata scattata, che “si sta scattando”, cosa possono fare i fotografi per combattere una tecnologia che ha nel suo DNA un simile valore visuale ed estetico, se non accettando che la propria cultura deve essere superiore di quella di una macchina? Dove è la conoscenza e la “saggezza” che Hartley consiglia per combattere la tecnologia ossessiva della Silicon Valley? Da queste parti – diteci se sbagliamo – si sente solo parlare di megapixel, gridolini quando si supera una barriera tecnica (Evviva, riprese video 4 K non compresse, e poi si cerca di gestirle con un Mac G5; evviva, si può scattare in assenza di luce!… accendere la luce no?), oppure si borbotta perché “Il mercato non è più quello di una volta”, e che “ora tutti accettano una bassa qualità e non pagano i professionisti”, che “gli smartphone hanno ucciso il nostro mestiere”.
Vi lasciamo con un pensiero trasversale: Rolling Stone, quello vero (USA), è in vendita, non perché non vada bene, vende ancora 1,5 milioni di copie e raggiunge – tra versione cartacea e digitale – 60 milioni di utenti americani, ma perché Jann Wenner che l’ha fondato esattamente 50 anni fa chiedendo in prestito ai parenti 7500 dollari, ha capito che non è in grado di gestire le tecnologie e le piattaforme digitali che oggi sono il futuro. E’ stanco, e ha capito di avere dei limiti. Questo articolo vorrebbe portare ad una analisi che permette di non dover gettare la spugna, ad alzare la bandiera bianca, non possiamo perdere nei confronti della tecnologia dimostrandoci deboli in quello che dovrebbe essere, invece, il nostro punto di forza: la cultura, la sensibilità, la capacità di stupire e di creare emozioni tutte nuove.