La discussione sull’editoria digitale in Italia è accesa, e a volte ci si domanda se le micce vengono accese per costruire qualcosa, per condividere, per combattere oppure perché… è “fashion” parlarne. L’altro giorno, su Wired.it è uscito un post che criticava aspramente l’applicazione del “Sole” su iPad, e in seguito c’è stata la risposta di Antonio Tombolini di Simplicissimus (che non solo l’ha sviluppata, ma che è anche personaggio al centro dell’evoluzione degli ebooks da anni, ben da prima che “nascesse” l’iPad).
Non è mia intenzione prendere le difese o criticare nessuno (è uno sport che non mi affascina), ma ho trovato molto strano il post di “accusa”, per un motivo: non capisco perché sia stata criticata “solo” l’applicazione de “Il Sole 24 Ore” ; se proprio bisognava fare una critica, andava fatta a tutte, perché sono praticamente tutte uguali, e poi forse è discutibile dare dei “principianti” perché non hanno “capito” che va “ripensata” l’interfaccia grafica. Sono anni che penso la stessa cosa, ma forse sentenziare con tanta autorevolezza è più sintomo di un errore di gioventù (quanto ero abituato a sentenziare anche io, sicuro che il giusto fosse solo quello che pensavo io…), che non di correttezza giornalistica. Anche perché i “difetti” di una grafica (non si tratta di interfaccia, siamo ancora alla grafica: fossimo già in una fase di interfaccia vorrebbe dire che siamo più avanti di quanto, di fatto, non siamo), nata per la carta e trasportata su iPad, in realtà ha un merito che ho imparato ad apprezzare (o quantomeno accettare): aiuta la migrazione da “vecchio” a nuovo. Oggi i lettori sui nuovi media sono di un’età molto variegata, certamente tendenzialmente più giovane di quella dei quotidiani cartacei, ma tra questi ci sono tantissimi (non ho dati certi, Apple non li fornisce, ma si tratta di buonsenso) che hanno un’età compresa tra i 30 e i 45 anni, che sono nati con la carta, che amano l’innovazione, ma non per questo vogliono (o sono in grado) di accettare un triplo salto mortale nella cultura della lettura. Il giornale, impaginato come sulla carta e trasportato sul monitor, ha tanti (tantissimi, enormi…) difetti, ma ci permette di vedere il “nuovo”, senza doverci abituare troppo. Al mattino, preparando il caffé, accendiamo l’iPad e leggiamo – forse sfogliamo, come facevamo con la carta – le pagine del Corriere, di Repubblica, del “Sole”. Ci sembra di essere in un nuovo secolo, finalmente, ma rimaniamo con i piedi per terra. Questo passaggio “dolce” dovrebbe essere valutato da chi sentenzia, ma la gioventù influenza anche la visione (come la vecchiaia: cerco di stare ancora nel mezzo, ancora per qualche anno).
Anche io ho criticato spesso, a voce grossa, gli “errori” degli editori, ma tutti: non solo quelli del “Sole”, e non solo quelli dei quotidiani. Anche quelli dei settimanali e dei mensili (compreso quello capostipite del sito in questione), tutti “colpevoli” di avere accettato una “semplice traduzione“, di pagine cartacee, che sul mezzo digitale non hanno senso, sono poco leggibili, aggiungono poco e tolgono – in un solo istante – centinaia di anni di cultura tipografica e grafica. Ma poi ho pensato e, specialmente, ho iniziato ad usare l’iPad, e ho scoperto che – pur mantenendo l’idea di base, ovvero che bisogna far nascere nuove riviste e nuovi giornali, nati per i tablet – è comunque molto piacevole scaricare Wired sull’iPad, e non mi viene più in mente di andare in edicola perché so che troverei le riviste interessanti (sempre meno) con grande ritardo se sono internazionali, o comunque mi darebbero ormai fastidio in casa, una volta lette. L’evoluzione della cultura dell’editoria industriale (quella dei grandi editori) sarà più lenta rispetto alle speranze che ho (avevo) io, e che hanno coloro che vivono la rete in modo profondo, che sono bloggers e utenti del web. Ma il compito delle riviste e dei giornali (e degli ebook, of course) è quello di traghettare tutti, non solo gli appassionati, non solo gli amanti della tecnologia, e soluzioni “morbide” renderanno possibile questa migrazione, senza spaventare, senza far sentire il 95% delle persone fuori dai giochi.
Sogno (e, per la verità, progetto, seguo come consulente varie esperienze, così come ho fatto negli ultimi due anni, quando di questa evoluzione ne parlavamo in pochi), riviste innovative, in questo periodo sto proprio lavorando a pubblicazioni di nuova generazione che vedranno la luce a breve, ma ho capito che è importante percorrere dei passi in varie direzioni: in una di pura innovazione, credo preferibile per chi si affaccia con progetti nuovi, e volutamente innovativi, anche reazionari (dal punto di vista culturale), un’altra più moderata, che porterà alla fruizione dell’editoria digitale da parte della maggior parte delle persone. Non a caso, quando Wired (cartacea, nel 1993) è nata era una realtà quasi “underground” (l’ho vista, la redazione di SF, all’epoca, underground è una parolona, i soldi dietro c’erano… quando abbiamo fondato noi la nostra rivista, Jump, in Italia, i soldi erano davvero un sogno), ma solo quando la cultura digitale è diventata mainstream è stata acquisita dalla Condé Nast: prima, non avrebbe avuto senso per un grande editore trattare un argomento così “trasgressivo”.
Fatta questa (che ahimé è solo una premessa), questo post e la relativa risposta mi hanno dato lo stimolo, anche se in vacanza, di pubblicare un post di confronto tra i tre principali quotidiani su iPad: Corriere, Repubblica, Il Sole 24 Ore. Non parlo de La Stampa, perché concordo con Tombolini, è un argomento a parte: proprio La Stampa ha infatti cercato, con coraggio da apprezzare molto, una strada alternativa, non grafica carta, ma un tentativo di riprogettare, quasi di “interfaccia” (come detto, non si parla ancora di “nuova” interfaccia, ma di un primo step per crearla, l’interfaccia), ma merita un eventuale post a parte e non di entrare in un diretto confronto.
Avendo fatto per studio e analisi l’abbonamento a tutti e tre i quotidiani, ora posso cercare di dare un contributo alla discussione su basi non teoriche, ma nei fatti. Confermo il “quasi” uguali, che mette ancora (per l’ultima volta) in discussione la critica monomarca di Wired.it, ma mi sono soffermato proprio su quel “quasi”, per coloro che vogliono approfondire, comprendere, valutare. Non certo per un pubblico che si accontenta di “vedere se funziona”.