The Chicago Sun-Times, uno dei più prestigiosi giornali americani, il 30 maggio, ha licenziato e mandato a casa tutto il suo staff di circa 30 fotografi. I motivi sono quelli di un taglio dei costi, ovviamente, ma c’è di più: quando bisogna “tagliare”, si riduce tutta la struttura in proporzione, non si taglia un dipartimento intero, a meno che non ci sia una strategia alle spalle, ed è di questa che bisogna parlare. Il management del giornale parla dell’esigenza di “informazione”, che il pubblico vuole più informazioni fotografiche e multimediali, e che quindi… licenzia i fotografi; per ottenere più contenuti visuali senza persone capaci di fare questo lavoro, il giornale promette corsi per l’uso dell’iPhone ai giornalisti, per consentire loro di effettuare scatti e riprese video mentre seguono gli eventi. E poi, ovviamente, si avvarranno di freelance dotati di smartphone, per infarcire gli articoli.
Questa non è la fine del fotogiornalismo, come in molti stanno dicendo: è la fine di un’editoria che – non essendo capace di creare prodotti di valore basati sulla fotografia – se ne libera, credendo che sia solo un costo. Riflettiamo, perché questa rischia di essere una buona notizia, per il fotogiornalismo e per la professione dei fotografi, purché si capisca che quello che sta cambiando è solo il posizionamento della fotografia e della sua cultura, non del mestiere. I motivi di questa dichiarazione (lo ammettiamo: controcorrente), sono i seguenti:
- Un editore che pensa che dei giornalisti possano mettersi a fare quattro foto o video decenti con l’iPhone e pubblicabili, è un editore che non sa di cosa parla. Prima di tutto, dal punto di vista economico (proprio il lato “forte”): i giornalisti si rifiuteranno di aggiungere, a costo zero, un lavoro in più (e allora, perché dare più soldi ai giornalisti? Non potrebbero darli ai fotografi?). In seconda battuta, perché la comunicazione che usa la parola è diversa rispetto all’immagine; certo che alcuni ci riusciranno davvero benissimo, quando faccio corsi nelle Case editrici (quindi ho cognizione di quello che si vive, all’interno di questo mondo), tendo a dire che questa fusione tra parole e immagini sarà sempre più importante, ma deve partire dalla formazione di base, nelle scuole di giornalismo, e non come corso “tecnico”. Il risultato sarà un peggioramento della qualità non solo delle immagini, ma anche del testo, perché il giornalista si troverà più impegnato a capire come fare “una foto decente”, invece che percepire e annotare gli aspetti giornalistici.
- Chi pensa che il problema sia fare un corso per spiegare come fare foto con l’iPhone è un beota. Semmai, servirebbe fare un corso su come, perché e quando fare una foto, un video, un’immagine. Se un giornalista possiede una fotocamera di qualità, perché dovrebbe lasciarla nel cassetto e usare un iPhone o uno smartphone? Il valore dell’uso di uno smartphone per fare foto sta nella sua immediatezza di comunicazione: dallo scatto, all’eventuale correzione/elaborazione con un’app, alla pubblicazione on line. Ma se le foto arrivano prima del testo (che deve essere scritto da chi, in quel momento, deve pubblicare le immagini), allora vuol dire uccidere non la fotografia professionale, ma il giornalismo. Una persona, per quanto in gamba (e il mondo è carente di persone in gamba, ci sono più mezze calzette, capaci di fare male mezze cose e non bene due cose insieme), non riuscirà a fare foto, video, elaborarle e allo stesso momento scrivere e correggere e pubblicare un testo. Questo vuol dire che le due azioni devono essere fatte in un secondo momento e quindi l’immediatezza di una foto online immediata perderebbe il suo senso.
- Chi giustifica questa scelta usando i dati di pubblicazione dei contenuti di immagini e video sui social network non capisce che il ruolo dell’informazione di qualità (o quantomeno quella a pagamento), deve essere quella di differenziarsi e non di appiattirsi. Ogni minuto (ogni minuto!), su Facebook vengono pubblicate 208,300 immagini, oltre 27 mila su Instagram, oltre 100 ore di video su YouTube. Secondo una stima di Yahoo saranno 880 miliardi le foto che verranno scattate nel 2014 (Marissa Mayer, la CEO, presentando le novità di Flickr, che ora offre 1 TB di spazio gratuito per tutti, per consentire di pubblicare immagini di alta qualità e risoluzione, ha dichiarato – ma poi ha smentito, dicendo che la sua frase era stata mal interpretata – che i “pro” nella fotografia non servono più a nessuno. In realtà, lei voleva dire che l’opzione “PRO” di Flickr non era più contemporanea, perché tutti fanno un sacco di foto, non solo i professionisti). Perché qualcuno dovrebbe, in questo magma di informazione visuale, puntare il proprio browser verso spazi di informazione gestiti da grandi editori, se questi ci propinano qualità uguale (se non peggiore… un fotoamatore farà foto migliori di un giornalista professionista che avrà fatto da due giorni un corso per fare foto con l’iPhone)? No, chi fa questa scelta pensa di essere intelligente, per risparmiare soldi, ma sta uccidendo definitivamente il ruolo dell’editoria di qualità (quella, lo dico ancora una volta per rimarcare, che vorrebbe essere fatta pagare).
- Forse la scelta di licenziare i fotografi è più facile, rispetto a licenziare altri professionisti che hanno delle realtà aggregative più forti, come per esempio i giornalisti? Secondo l’opinione (che condividiamo) di Vincent Laforet, i fotografi rappresentano all’interno del giornale il 5% del totale dei dipendenti, mentre sono circa 600 i giornalisti. Si poteva forse licenziare qualche fotografo e qualche giornalista, sarebbe stato più sensato, ma forse anche più pericoloso. Questo significa che solo l’unione fa la forza, ma deve essere unione positiva, costruttiva, forte, collaborativa. In questo, ci viene da pensare a quanto, in Italia, siamo incapaci, specialmente in questo settore della fotografia, di fare forza comune. Si pensa solo a fare le scarpe uno all’altro, si pensa di essere furbi, ma il giorno che succederà qualcosa come la storia che raccontiamo, saremo tutti ancora più indifesi.
Tutto questo dovrebbe lasciare l’amaro in bocca, ma crediamo che sia una buona notizia, tutto sommato. L’editoria e l’informazione di qualità devono scoprire e riscoprire la forza e il valore dell’immagine, puntare su questo elemento, proprio perché nel mondo si consumano e si producono sempre più immagini. Se l’editoria, se le aziende, se il mercato punta sull’impoverimento dell’immagine, sull’uso gratuito o malpagato di immagini realizzate da un pubblico amatoriale, se si vogliono trasformare i giornalisti in fotografi, quello che succederà è che un pubblico raffinato e sensibile, amante dell’immagine e del suo valore, potrà trovare altri settori dove l’immagine invece trova il suo spazio e il suo valore. E la monetizzazione di questo nuovo business, che sfuggirà agli editori e alle aziende più grandi, sarà portato da tante possibili entrate: abbonamenti di utenti appassionati, da sponsorizzazioni di aziende che vorranno uscire “dalla massa” brillando con luce nuova e forte, da pubblicità e da inserzioni che potranno essere create usando affiliazioni e modalità contestuali (come Google Adsense). O, ancora, saranno prodotti (libri, riviste, album, app, storie illustrate che potranno essere create per un pubblico specifico.
Le scelte stupide e senza futuro come quelle fatte da The Chicago Sun-Times aprono nuovi orizzonti per i piccoli, per quelli bravi, per quelli che sanno davvero come creare emozioni e valore con le immagini. C’è solo un problema: il fatto di non avere un “datore di lavoro” che ci paga le bollette, mette sulle nostre spalle le responsabilità delle scelte (estetiche, tecniche, strategiche): se sbagliamo, se facciamo prodotti che non hanno successo, è e sarà sempre più solo per colpa nostra. E questo significa anche che se faremo foto che non sono evidentemente migliori di quelle che miliardi di persone fanno e pubblicano online, vuol dire che non riusciremo a giustificare il nostro ruolo e il nostro prodotto. Insomma, la buona notizia è che ci sarà sempre più spazio per prodotti di vera qualità. E sempre meno spazio, nel business, per prodotti di scarso valore.