Quello che dovrebbe essere alla base del nostro mestiere – nostro, vostro e anche quello delle aziende che lavorano in questo settore fotografico – finisce col diventare un evento straordinario. Parliamo del confrontarci con le fotografie, da vivere nel loro impatto emotivo, soffermandosi a lungo e non solo “sfogliandole” rapidamente su una pagina di una rivista o su un sito internet (tra l’altro… vi siete mai accorti che la tanto discussa velocità del web è – sulle immagini – più lenta rispetto al “girare pagina” su una rivista? Interessante tema…).
L’altro giorno siamo stati ad una mostra presso la Triennale di Milano (in programma fino al 26 ottobre), che consigliamo a tutti non tanto e non solo perché si tratta di un’antologica di uno dei nomi importanti della fotografia, Douglas Kirkland che festeggia 50 anni di lavoro, vissuti sui set dei film “leggendari” e quindi è anche testimonianza della storia del cinema. Il motivo non è nemmeno tecnico, anche se è interessante vedere le stampe realizzate dalle nuove stampanti HP grande formato della serie HP Designjet Z3200 a 12 colori (da osservare conattenzione la resa delle tonalità calde, grazie al nuovo colore Rosso Cromatico HP73):
ne parleremo presto in una review, perché c’è molto da dire, anche sulle carte baritate che ripropongono la resa delle versioni analogiche, con i vantaggi del digitale. I motivi, secondo noi, sono principalmente due, ed è per questo che dedichiamo il Sunday Jumper di questa settimana a questo argomento.
Il primo tema è quello del progetto che è parallelo a questa mostra “storica”: le immagini scattate da Kirkland in esclusiva per i cinque anni di Vanity Fair, omaggio al cinema italiano con il remake di scene storiche dove i grandi personaggi (Alberto Sordi, Sophia Loren, Anna Magnani,
Giulietta Masina…) sono stati stati interpretati da attori e attrici contemporanei, ricostruendo le scenografie, spesso usando quelle originali di Cinecittà.
Glom… vengono i brividi per questa avventura, vero? Come si può ricreare un pathos e un’emotività di un film come “La Ciociara”, oppure “Ladri di biciclette”? Prima di tutto, lo spessore di alcuni attori e attrici non è paragonabile: la peggiore figura forse la fa Laura Chiatti che si atteggia ad Anita Ekberg, e anche Luisa Ranieri nei panni della Mangano di Riso Amaro non ne esce bene. Ci sono grandi attori e attrici che interpretano bene (una per tutte, Giovanna Mezzogiorno in ginocchio disperata nella scena principale de “La Ciociara”), che però non donano lo stesso impatto fotografico dell’originale. Per assurdo, i più convincenti sono quelli che, alla fine, sembravano i meno “titolati”: Taricone che veste i panni di Sordi che si abbuffa di spaghetti in “Un americano a Roma”, la Littizzetto che interpreta la Masina in una scena de “La strada” di Fellini e persino Ambra che veste (poco) i panni (ancora più succinti nell’edizione originale) di Laura Antonelli in “Malizia”. Ma c’è un motivo: sono tra quelli che si sono avvicinati all’interpretazione senza “prendersi sul serio”, in modo autoironico e quindi con un rispetto che traspare in modo limpido.
Quello che ci manca, però – oltre all’interpretazione – è quel livello di imperfezione che è elemento integrante e fondamentale delle immagini che ci ricordiamo tutti. La pellicola, la grana, la mancanza di sfumature: gli scatti, realizzati in digitale, non hanno quella struttura, sono troppo “perfetti”, sono troppo “dettagliati”. E questo non perché si tratta di “digitale”: avessero usato pellicole e ottiche attuali, sarebbe stato un risultato differente rispetto al digitale, ma sempre troppo “perfetto”. La dimensione dell’imperfezione e il suo lessico è da comprendere, ricordare, ricostruire: si può aggiungere ed elaborare, in digitale. Da qualche settimana “gioco” con il fantastico Silver Efex Pro della Nik Software che offre elaborazioni da applicare anche con un “pennello” e non solo su tutta l’immagine, oppure Exposure 2 di Alien Skin che lavora sulla grana e sui “difetti” analogici. Non bocciate la cosa come “effetti speciali“, non è detto che questa sia la strada, ma di sicuro se vogliamo recuperare il sapore di scatti fotografici di decine di anni fa, non possiamo usare strumenti che non possano essere contaminati. In questa mostra – bellissima e imperdibile, comunque – manca una riflessione sul difetto, e quindi la ricostruzione appare a tratti fredda. Una freddezza che però non è del digitale come tecnica, ma dell’innovazione che tende a proporre la perfezione anche quando questa perfezione non aiuta a comunicare, ma anzi crea distanza. Sarebbe stato bello intervenire su questo elemento, in fase di post produzione. Kirkland ha detto di avere studiato le luci dei direttori della fotografia dell’epoca (molti dei quali ha conosciuto personalmente), ma forse non avrebbe dovuto “accettare” la perfezione della riproduzione, e andare a cercare quell’errore che avrebbe reso più intenso il risultato.
Abbiamo detto però che i punti di discussione e che meritano la visita a questa mostra sono 2 (3 con il dettaglio tecnico della produzione delle stampe con le macchine di nuova generazione HP): il fatto che questa è una produzione realizzata con questo dispendio di sforzo (non vorrei che si leggesse critica su un progetto comunque di grande interesse, culturale, prima ancora che tecnico) è stato voluto da una rivista, che l’ha prodotta e che, banalmente, l’ha pagata. Questa è una rivoluzione, un ritorno “ai bei tempi”: una rivista… che produce un servizio fotografico di questa entità, per di più in Italia, merita applausi ed entusiasmo. Avremmo voluto chiedere cose “che non si potevano chiedere” tipo… quanto è costato questo progetto? Quanto può rendere per una rivista investire a questo livello su un servizio di fotografie? Di sicuro si tratta di un caso speciale, commemorativo, anche se qualcosa di simile è stato fatto sempre da Vanity Fair e pubblicato in Italia quest’estate, con scene di film di Hitchcock rappresentati da attori di Hollywood attuali. Vanity Fair sta diventando un prodotto e un riferimento per l’immagine che forse è stato territorio del passato di testate storiche, le stesse per le quali Kirkland lavorava, così come tutti i “grandi” fotografi, che sono diventati grandi anche per questa possibilità: come si fa a diventare “grandi fotografi” oggi, con i budget che ci sono, con la carenza di spazi e di lavori che davvero mettono in evidenza la qualità fotografica?
Per questi due motivi, siamo stati ben felici di avere seguito, vissuto e approfondito questa mostra, e torniamo a consigliare una visita fino al 26 ottobre. L’appuntamento con noi, invece, è per la prossima domenica. Anzi… prima, perché ci sono parecchie cose di cui dobbiamo parlare!