Prima dell’alba di Internet, c’era una convinzione assoluta:
se qualcuno usa le mie fotografie senza autorizzazione, commette un abuso e un illecito, e se lo becco gli faccio un occhio nero.
Beninteso, ancora oggi molti hanno lo stesso pensiero, ed è anche un pensiero sano e positivo, e non è nostra intenzione cambiare questo approccio. Sono però successe molte cose, molta acqua è passata sotto i ponti e la comunicazione digitale è diventata così fondamentale da mettere in gioco molte opinioni, da modificare le strategie, e anche da trasformare in fatto positivo qualcosa che, invece, non poteva che essere negativo.
Proprio ieri è stato pubblicato un articolo, poi ripreso anche sul sito PetaPixel (che personalmente considero una delle fonti più interessanti e intelligenti legate al mondo della fotografia) che tratta l’argomento, ed è firmato da un fotografo inglese, Ben Roberts, che a febbraio ha realizzato delle immagini che sono state pubblicate con l’articolo “Amazon Unpacked” del FT che potete leggere qui (firmato da Sarah O’Connor). Al di là dell’interesse giornalistico suscitato dall’articolo (e dalle foto), non è successo molto di più a febbraio, quando questo articolo è stato pubblicato, e nemmeno una settimana dopo, quando Ben ha pubblicato sul suo sito la galleria delle immagini (qui). Al contrario, queste immagini sono “esplose” quando sono state riprese, una settimana fa, sul sito It’s Nice That, e poi su altri siti… in pratica, è diventato un contenuto “virale“, un termine molto comune e molto “cool”, specialmente tra coloro che sono (o, più comunemente, fingono di essere) esperti del web e delle strategie digitali. Ci sono persone che ricevono telefonate o richieste del tipo…
“Scusi, lei fa video virali?”
Come se qualcuno domandasse:
” Scusi, lei fai film che vincono gli Oscar?”
Per “virale” si intende che questi contenuti sono stati ripresi da tanti, da tantissime persone/siti/blog, e hanno fatto il giro del mondo rapidamente. Detto così sembra una cosa positiva, ma se la vediamo alla “vecchia maniera” si tratterebbe di “illecito, di abuso, di… brutta cosa”. La cosa interessante è che Ben Roberts, invece che arrabbiarsi e basta, magari intentando qualche causa o lanciando una sfida all’ultimo sangue, ha fatto una preziosa analisi della situazione e l’ha condivisa con tutti, a vantaggio di un approccio costruttivo. Inizialmente, ha identificato i seguenti effetti “negativi”:
1) Nessuno dei responsabili dei blog che ha usato le sue foto ha pensato minimamente di contattarlo, quando hanno deciso di usare le sue immagini all’interno del loro prodotto/sito
2) Tutti i blog poi hanno pubblicato alcune delle sue foto su Facebook, e sappiamo tutti come sono considerati i termini d’uso di Facebook dai fotografi (tanto per capirci… Facebook poi si “impossessa” dei contenuti postati, quindi il danno è doppio)
3) La maggior parte dei siti ha pubblicato da 8 a 12 immagini delle 13 totali, riducendo (azzerando, sostanzialmente NDJ – Nota di Jumper – ) la necessità o l’interesse per gli utenti di questi siti di collegarsi al sito del FT o al sito del fotografo
4) Tutti i siti/blog che hanno pubblicato sono, di fatto, delle società a scopo commerciale, con dipendenti. Alcuni di loro sono di proprietà di agenzie media o case editrici
5) L’ampia riproduzione delle sue immagini tramite Internet ha ridotto fortemente il potenziale di vendita di queste foto in futuro, in quanto troppo “viste”.
Questi punti sarebbero sufficienti per “bollare” questa situazione come una brutta pagina per chi fa della fotografia la sua professione e la sua sopravvivenza. Ma ci sono anche dei lati positivi, che vengono sintetizzati sempre nello stesso post:
1) Tutti i blog hanno con precisione attribuito correttamente il suo nome di autore, e hanno incluso un link al suo sito. Ha dovuto contattare It’s Nice That per richiedere di aggiungere anche i crediti di Sarah O’Connor del FT. La maggior parte dei blog hanno fatto lo stesso, suggerendo la fonte dalla quale sono state tratte le immagini
2) Non ci sono dubbi che il suo nome abbia avuto una diffusione molto più allargata e quindi molti visitatori che potrebbero ricercarlo. Da un certo punto di vista, questo è un bene, anche se è difficile sapere quali potranno essere, a lungo termine, i vantaggi di questa “popolarità”.
Insomma, la domanda che ci si pone, e che pone anche il fotografo è: nell’era digitale e della distribuzione virale dei contenuti su Internet, esiste un sottile confine tra “Fair Use” (uso “lecito”, se volete approfondite qui) e “furto“, ed è un argomento complesso da valutare. Delle risposte, Ben Roberts le individua in un comportamento da gestire e proporre, con la seguente modalità, che ci sembra sensata:
– Se un autore di un blog o un editore vuole pubblicare delle mie foto, può contattarlo
– La sua risposta sarà positiva e permetterà di usare 2-3 immagini già precedentemente pubblicate, con corretta attribuzione del copyright, il link al contenuto originale e ovviamente all’interno di un contenuto coerente e contestuale.
– Tutti sono così felici: loro hanno il contenuto che desiderano, che creerà traffico ai loro siti e darà vantaggio di visibilità alla loro pubblicità, il fotografo avrà una maggiore visibilità del suo lavoro e maggiore traffico al suo sito, mantenendo dei contenuti esclusivi per eventuali altre vendite.
Insomma, alla fine, il vantaggio della visibilità è prezioso per tutti. Più le nostre immagini saranno viste, diffuse, “viralizzate“, più ne otterremo vantaggi. Ce le ruberanno, o saremo noi che vorremmo farcele “rubare”? Ma, forse, la questione più importante, è: “faccio immagini che possono essere oggetto di un effetto virale“? Quello che riesce ad essere “virale” può rispondere alla richiesta di cui parlavamo prima “Lei fa video o foto virali“? Anzi, ancor meglio, la risposta esiste prima che venga posta la domanda, perché quello che diventa virale arriva sulla bocca e agli occhi di tutti.
Nell’era dell’eccesso dell’informazione (qualsiasi tipo di informazione) quello che conta è arrivare ad un numero elevato di persone, l’unica strada possibile per uscire dall’anonimato, dal magma che non offre speranze. Ma serve un approccio mentale nuovo, dove i filtri culturali del passato vengono rimossi e si individuano altri percorsi. Senza dimenticarsi che, una volta che questo funziona, e troviamo il modo di essere visibili, ci servirà una “casa” sul web che sia accogliente, perché non c’è nulla di peggio che creare presupposti che poi non si possano sfruttare.