Il “media” – per citare il buon McLuhan – è il messaggio. In questa ben conosciuta ed eccessivamente citata considerazione, si tende ad interpretare in modo semplicistico il vero concetto di “messaggio/media”, in un’era in cui questo elemento diventa molto più fluido e complesso.
McLuhan parlava – e tanta discussione e c’è confronto e polemica in questo – di media “caldi” e media “freddi”, i primi capaci di essere ricchi di informazioni ed agire fornendo al fruitore una completezza di sensazioni e messaggi che lo rendono più “passivo”, e i secondi invece che, essendo di natura “poveri” richiedono un’azione di “completamento” del messaggio da parte dello stesso fruitore. Si tende anche a definire i media caldi come “ad alta risoluzione” e quelli freddi a “bassa risoluzione”, ed è ovvio che in ambito fotografico, specialmente tra chi interpreta i concetti da un punto di vista puramente tecnico, questa differenza risulterebbe molto chiara e comprensibile. Eppure, quando si fanno “esempi” (sempre nell’opera di McLuhan), e si confrontano con la realtà attuale, la confusione è forte. McLuhan indicava, per esempio, media freddi (cioè a bassa definizione) la TV, il telefono, i cartoni animati, la conversazione; viceversa definiva come caldi media come la radio, la fotografia e il cinema, ma siamo sicuri che oggi sia così facile distinguere e classificare i media in definizioni così strutturate e nitide? Sinceramente, ci sembra difficile: oggi serve maggiore fluidità, un media si fonde con l’altro (e ugualmente i messaggi), e sono tanti gli elementi che si uniscono in un processo cognitivo “avvolgente” e immersivo.
Non vogliamo fare trattati teorici, solo investigare, nel nostro costante tentativo di mettere insieme dei puntini per tracciare un pensiero più elaborato. E ci soffermiamo su alcuni esempi che ci permettono forse di interpretare fenomeni e idee con maggiore approfondimento (e potenzialità).
Facciamo un primo esempio e parliamo di messaggi (sta poi a ciascuno correlarlo al “media”): le fotografie di paesaggio.
Se pensiamo alle opere del passato (diciamo Ansel Adams, per fare un esempio che conoscono tutti), e proviamo ad interpretarla oggi ci accorgiamo che le foto di paesaggio possono integrare dati di geolocalizzazione che trasformano ogni immagine in un “ponte” verso il “luogo” e anche possibili infinite connessioni con altre immagini dello stesso luogo. Una fotografia che esprime un messaggio, che racconta un luogo, che crea ispirazione… oggi noi naturalmente la pensiamo come un punto di partenza, l’inizio di un viaggio. E di colpo il concetto di “media” prende un’altra dimensione, ma anche una responsabilità: se siamo portatori di un processo di informazioni/esperienze da seguire (connesso con tanti altri media-messaggi), siamo sicuri che stiamo facendo qualcosa di positivo? Far “scoprire” zone e luoghi grazie alla pubblicazione online a volte genera fenomeni “virali” e non è detto che questi luoghi siano pronti per ospitare queste nuove forme di popolarità, e peggio ancora non si può sapere se questa “crescita” possa addirittura stravolgere il luogo stesso. Ci sono esempi, per esempio questo… una storia che deve far riflettere: occasioni e responsabilità, in un’era sempre più connessa.
Ha pensato a questo concetto un’organizzazione che si chiama Leave NO Trace Center for Outdoor Ethics (Leave NO Trace = non lasciare traccia), che si occupa di fornire educazione, dare indicazioni e richiedere responsabilità per lasciare i luoghi uguali a come li abbiamo trovati. In questo contesto, molto ampio, è stato creato un messaggio-guida circa l’uso delle immagini di luoghi all’interno dei social media che è interessante e che secondo noi è di ispirazione non solo per la massa delle persone che quasi sono portate a fare viaggi e visitare luoghi perché “instagrammabili”, dove l’importanza non sembra essere quella dell’esperienza che si vive, ma il fatto che si vuole dire “che la si sta vivendo”, ma anche per chi della fotografia di paesaggio si occupa a livello professionale. Ci possono essere progetti che spingono a comunicare qualcosa di più di una “bella immagine”, che al tempo stesso lavorano sul concetto di responsabilità di un messaggio/media che si proponga oltre i confini dell’immagine stessa.
Ci sono mille esempi di come i messaggi/media (medium) si sono modificati nel tempo. Evidente il cambiamento nell’uso del telefono; non parliamo della trasformazione dell’oggetto-telefono, da strumento di comunicazione tramite voce a computer per mille interazioni, ma rimanendo al suo primordiale ruolo, il canale bilaterale di un messaggio audio. Oggi non si telefona (quasi) più, ma si creano “audio” che vengono inviati tramite Whatsapp, Telegram o altri sistemi di messaggistica. Sempre audio, ma non più sincrono, discorsi che diventano monologhi, che sono ancora più “medium freddo”, è diventato gelato, ghiacciato, polare… Troppo facile quindi la banalizzazione del media “telefono”, non si prevedeva che si poteva perdere l’interazione dove toni di voce o parole specifiche potevano creare livelli di scambio e di approfondimento differenti. Sempre collegato all’area del messaggio tramite audio, quanto bisognerebbe approfondire dalla “nuova” esplosione dei podcast? Inventati nella prima Era dell’iPod, trasmissioni “radio” che però consentivano il download e specialmente la fruizione nell’orario preferito dal fruitore, invece che seguire un palinsesto orario definito dall’emittente della radio, dopo qualche anno di distrazione da parte del mercato ora sembrano sempre più in crescita, un vero fenomeno molto contemporaneo. Chi comunica, in modo professionale, chi progetta contenuti e desidera creare interazioni, cosa può trarre da questa evidente modifica culturale? Solo all’apparenza si tratta di media “tradizionali”, nella realtà si modificano, vengono stravolti, perdono funzionalità e ne guadagnano altre, mille altre.
Per finire, per tornare all’immagine, se il media è il messaggio, se possiamo e vogliamo considerare il “supporto” il media (la carta, il monitor del computer, dello smartphone), allora perché non pensare che i “supporti” possono essere tantissimi, ma anche la relazione tra “supporti” e fruitori? Ci sono supporti che sono solo “funzionali” (torniamo al concetto di media-supporti freddi) e altri che invece completano il messaggio con maggiore profondità e completezza. La fotografia su una rivista cartacea, che ci permette il tocco, e anche la sequenzialità grazie all’interazione dello sfogliare delle pagine, è diversa dalla stessa immagine incorniciata e messa su una parete, ma ancora diversa dalla sua riproduzione su uno schermo touch, che ci porta non solo a “sfogliare”, ma anche a “toccare”, magari per generare delle animazioni, le immagini possono prendere vita (esempio le Live Photos dell’iPhone, ma ci sono tante altre opzioni), o ancora, che si modificano, si muovono e si esplorano tramite i sensori di movimenti dei device mobili. Scegliere cosa comunicare, come comunicarlo e come usare i supporti-media come linguaggio e come parte fondamentale del messaggio è sempre più richiesto e imposto dal mondo della comunicazione. E la nuova (per modo di dire) tendenza è quella di entrare dentro le immagini, un supporto che diventa “non supporto” come per esempio nella realtà virtuale e aumentata, ma che può essere un supporto tridimensionale all’interno del quale entrare: possono essere installazioni dove video e proiezioni vengono vissute immergendosi: il fruitore viene invitato ad entrare nel messaggio, non rimane fuori, non c’è una demarcazione tra “dentro” e “fuori”. Ma questa esperienza può essere anche vissuta, qualcuno lo ha fatto, usando immagini “fisiche” che pur essendo bidimensionali offrono una immersione tridimensionale. Per esempio, l’eccezionale lavoro di Chris Engman con il suo progetto Equivalence, che mostra una visione immersiva della fotografia davvero spettacolare, che potete (fatelo!) vedere sul suo sito, ma potete anche vivere nel timelapse del video che proponiamo qui sotto. Un media stampato ed immersivo è davvero qualcosa di contemporaneo, che genera una contrapposizione (o una complementarità) con l’esperienza del digitale che ci assorbe sempre di più. Possibili utilizzi? Negozi, locali, spazi per eventi, luoghi da vivere da dentro (e non dalla fredda proposta tramite uno schermo), fiere, mostre.
Sarebbe bello avere le opinioni di personaggi come McLuhan ai giorni nostri. Schematizzare, sintetizzare, orientare è sempre più difficile: tutto si evolve, si chiedono e si propongono continue evoluzioni che rimettono in gioco, ogni giorno, tutto, creando confusione, facendo crollare tutti i punti “fermi”, ma al tempo stesso c’è la possibilità di creare nuove forme di “stabilità”: che se ci muoviamo seguendo il movimento, ci accorgiamo che otterremo il risultato del creare attenzione e di essere seguiti, perché saremo i soli che sembreranno “fermi”, e quindi visibili di più e meglio rispetto a quello che sta fermo (e che scappa via, causa il movimento continuo che porta fuori dalla prospettiva di tutti) oppure che si muove dalla parte opposta creando movimenti opposti che possono non coincidere mai.
Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
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Over and over again
(Franco Battiato-Giusto Pio -1981)