Il mestiere di fotografo nell’era dei selfies

Il mestiere di fotografo nell’era dei selfies

Selfies_fotografia

Le persone, specialmente i giovani, amano fotografarsi, una forma apparentemente legata al puro narcisismo (ed è ovvio che il narcisismo c’entra, eccome), ma che ha schemi molto più complessi e profondi ed è direttamente legata al sempre più evidente sdoppiamento di identità, una fisica (sempre meno “importante”) e una digitale/virtuale, che è quella di apparire in un contesto da condividere con un pubblico allargato. I giovani (ma non solo loro… ci sono “adulti” che fingono di essere giovani, prendendo i lati più deboli delle nuove generazioni, emulandone i gesti) hanno tra le loro priorità quella di voler essere accettati ed essere dei “riferimenti”, dei veri e propri “Media”… La popolare massima di Andy Warhol sul quarto d’ora di notorietà non basta più: si vuole essere al centro dell’attenzione sempre, non solo un istante.

Questa che è la “partenza” del fenomeno si sviluppa in ambiti che riguardano direttamente il nostro mestiere, ovvero quello di “catturare” la realtà con la fotografia, perché è evidente (e ora lo conferma uno studio molto autorevole curato dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Toronto) che chi si dedica molto alla disciplina dei selfies tende a sovrastimare la propria “attrattiva”, si attiva un fenomeno – che come una droga cresce con il tempo e con il consumo – che li fa percepire come “più belli”, anche rispetto all’oggettività pura. Inoltre, i selfies-addicted arrivano a decidere quali sono i lati del loro viso/corpo che preferiscono, e quindi non riescono ad accettare di mettere in evidenza quelli che meno amano; questo è un grande problema se è qualcun altro che realizza un ritratto.

Il ritrattista si trova davanti ad un notevole imbarazzo: deve confrontarsi con un muro che delimita reale e virtuale: quello che si vede e si interpreta non è quello che la persona che viene ritratta si aspetta di vedere. Ormai si vuole essere quello che si vuole mostrare, tutto il resto è “sbagliato”. Qualcosa di simile ai meccanismi che la pubblicità e la comunicazione impongono sui prodotti: lo specchio non mostra e non deve mostrare la realtà, ma quello che vogliamo si rifletta, ha vinto Grimilde (la Regina “cattiva” di Biancaneve) e il suo specchio che pur di rendere felice la sua padrona preferisce raccontare bugie. Il fotografo rischia di interpretare quella realtà che fa male, di essere quello che dichiara che no… oggi c’è Biancaneve che è diventata più bella della Regina, e quindi su di esso ricade tutta la rabbia per avere mostrato questa cruda realtà.

Cosa si può fare, quindi, per superare questa situazione? Ci sono situazioni in cui la persona ritratta arriva a “spiegare” che “il mio lato migliore non è questo, hai sbagliato”… e quindi cosa rimane del ruolo dell’interprete? Andare in profondità – sempre che il fotografo ne sia in grado – ha ancora senso in un mondo governato non solo dall’apparenza, ma dal desiderio di apparire come si vuole apparire, ancor prima del come si è “realmente”? In un mondo in cui si sfugge dal reale per viaggiare nel “virtuale”, ha ancora senso parlare di “ritratti”?

Crediamo che il ruolo dei fotografi, in questo contesto, non sia “solo” un approccio di tipo qualitativo: considerate che uno studio dimostra che oltre l’80% delle persone giudica la propria “competenza” fotografica come “eccellente”, quindi potrebbe non essere strategico vendere la propria competenza e professionalità dichiarando: “io ti faccio un prodotto di qualità”. Più interessante, potrebbe essere quello di lavorare su uno step evolutivo di questo sogno di “apparire”, creare delle ali per volare ben oltre alla fantasia realizzabile dal singolo.

Andando più nel pratico, affidarsi alla narrazione, allo storytelling, all’approccio cinematografico, per creare un mondo parallelo in cui il soggetto potrebbe trovare un proprio spazio di fantasia, che amerà poi condividere sui suoi percorsi “social”. Se notate, molto successo in questi anni ottengono le immagini a forte contenuto evocativo, dove si raccontano storie, si creano atmosfere, si interpretano dei sogni. In questi sogni, la persona ritratta rappresenta un personaggio (un “suo” personaggio), il fotografo è il mago che rende possibile tutto; ricordiamoci che la fotografia, per quanto illusoria e costruita, viene percepita – dal punto di vista psicologico – dalle persone come una “realtà credibile”, e alla fine se la vita è un film (o si sogna che sia così), serve un regista per renderla visibile.

Dove finisce, in tutto questo, il senso di “realtà”? Ad esclusione di settori in cui la documentazione è fondamentale, la fotografia è la più forte illusione che sia mai stata inventata. La fotografia è sempre stata – sin dagli albori – una Realtà Alternativa. Se non ci rendiamo conto di questo, allora non abbiamo capito il vero linguaggio della fotografia. E se non capiamo che la forza della fotografia di qualità (quella “Professionale”, quella che si produce perché qualcuno la richiede o ne sente la necessità) non è altro che una realtà alternativa più vendibile e apprezzabile, allora forse è il momento di iniziare a rifletterci su.

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