Il 23 maggio, si è spento, a New York, Cornell Capa. Aveva 90 anni, di famiglia ebrea, era nato a Budapest, ma poi nel 1936 si era trasferito a Parigi per raggiungere quel fratello che lui chiamava Endre, ma che tutti conoscono come Robert (Capa), che lavorava come fotoreporter nella capitale francese. Dopo le prime esperienze da stampatore, per il fratello più famoso e poi presso le camere oscure di Life, ha iniziato anche lui l’attività di fotoreporter, e nel 1946 è entrato nello staff dei fotografi di Life e successivamente, dopo la morte del fratello, in Magnum (non sappiamo se c’è una policy che proibisce di avere due fratelli contemporaneamente nella stessa agenzia, oppure se è stata una coincidenza).
Un altro pezzettino di storia, della nostra storia fotografica, che se ne va. Ogni volta che succede, ci fa pensare quanto siano cambiate le cose, in poche decine di anni. Però non possiamo farci prendere dalla malinconia, e nemmeno dal pensiero che sempre il passato è meglio del presente, e molto più promettente del futuro. Bisogna pensare a quello che abbiamo davanti a noi, e quello che dobbiamo fare per poterlo vivere al meglio: è facile avere chiari i meccanismi di quello che funzionava nel passato, abbiamo avuto tutta l’esperienza, le verifiche e le prove di quello che avrebbe funzionato all’epoca.
All’epoca dei fratelli Capa, il senso era quello d fare belle foto, di avere sensibilità, di avere la capacità di raccontare delle storie con le immagini. Era quello, il mestiere del fotografo, a metà strada tra sensibilità, arte e tecnica… già, perché – questo negli ambiti artistici è fastidioso da dire – all’epoca, fare belle foto era comunque difficile, e quindi ci voleva non solo testa, ma anche tecnica. Non saltate dalla sedia, dicendo che anche oggi serve capacità tecnica: è vero, se si vuole raggiungere l’eccellenza, ma il livello della tecnologia consente oggi di ottenere risultati molto buoni anche senza conoscere a fondo la tecnica.
All’epoca dei fratelli Capa, le fotografie erano un contenuto di valore: in pochi le facevano, in pochi sapevano farle bene, pochi avevano la sensibilità per farle, e pochi erano realmente “sul campo” a riprendere guerre, o anche storie di vita normale. E questi “contenuti” di valore avevano una strada ben tracciata: riviste che sapevano come trasformarle in meravigliose pagine (la già citata Life, prima di tutte) che venivano vendute per far sognare, per far scoprire, per far vivere a distanza i fatti della vita. Inutile fare il paragone con il presente, dove tra televisione e internet, tra i cellulari e i photoblog, è stata stravolta quella che è la realtà delle riviste. Vorrei farvi riflettere non su questa banalità, ma su un altro dettaglio importante: anche all’epoca d’oro, quando era evidente il valore delle fotografie (ora meno, purtroppo), tra fotografo e mercato c’era qualcosa in mezzo, l’editore, la rivista. Da sempre, il fotografo produce un contenuto che ha bisogno di essere contestualizzato; senza il contesto, il suo valore si riduce. Chi sta in mezzo, è quello che prende il contenuto, lo trasforma in prodotto e lo vende. E’ un destino che ho dovuto riscontrare sin da giovane studente di fotografo: un odioso grafico mi ha messo di fronte all’evidenza: senza il mio lavoro, che prende le tue foto e le inserisce all’interno di qualcosa, le tue foto non valgono nulla.
Lo so, fa male all’orgoglio, ma pur detto male, pur non essendo così vero in tutti i casi, il concetto è corretto: noi fotografi siamo contenuto, il contenuto va inserito in un contesto (anche solo distributivo, non necessariamente sempre un prodotto) e chi si occupa di prendere il contenuto e di trasformarlo in un prodotto è quello che vince (banalmente, che guadagna di più). Nell’era di Internet, questo problema – che sembra ridotto, visto la possibilità di evitare gli intermediari – è ancora superiore, e lo è in modo subdolo… perché ci illude. Sembra che quello che vale sono i contenuti, che quindi se siamo noi a produrli saremo finalmente a cavallo, liberi di gestirli con il massimo vantaggio. E’ invece vero il contrario: è vero che siamo nella condizione di essere editori di noi stessi, possiamo condividere con un pubblico enorme il nostro lavoro, le nostre opere, i nostri progetti. Questo è bello e positivo, ma non genera soldi. Chi fa soldi, su Internet, è chi detiene il controllo dei “click”: gli aggregatori, coloro che stanno tra chi crea (in media… l’1% degli utilizzatori del web) e chi guarda (l’89%, da statistiche), e persino che controllano e gestistono quel restante 10% degli utenti che interagisce, che lascia commenti, che interviene… contribuendo indirettamente a creare contenuti derivati.
Qualche anno fa, si diceva: Internet tornerà a dare valore ai contenuti, chi proporrà contenuti di valore, vincerà. Per ora, chi vince non è chi li produce (a cui vanno le briciole, e a volte nemmeno quelle), ma chi ne indirizza il traffico: motori di ricerca, aggregatori, siti di social network, che non a caso sono in mano a pochi e ricchissimi.
Detto così. il quadro non è promettente, ma come si diceva bisogna comprenderlo, e trarne vantaggio. Dobbiamo imparare a costruire centri di interesse, aggregare valori, comprendere quello che vuole il mercato, ad essere al centro dei click, che è la metafora del vero interesse (e quindi del vero valore). Di questo, e molto di più, parleremo il 19 giugno, a Milano in occasione dell’HP Masterclass, SUMMER Edition. Ma di questo vi informemo a fondo mercoledi, quando vi invieremo l’invito per registrarvi: fatelo subito, e bloccatevi: sarà l’evento che chiuderà la stagione e l’occasione non solo per approfondire, ma anche per incontrarci.
Buona settimana, a presto!
di Luca Pianigiani