Dobbiamo puntare sulla “Realtà” o sulla “finzione” in fotografia? Deve vincere il topless “sincero” di Keira Knightley oppure le verità con più colore di Baby K? L’arte (e la menzogna) della fotografia sta nel mostrare e nascondere, inserire, aggiungere e omettere a regola d’arte, oppure per desiderio o necessità di mentire, o per questioni meno programmate e desiderate: semplicemente perché tecnicamente il risultato è quello che sensore, pellicola o altro supporto hanno catturato.
Un esempio sta in quella che sembrerebbe essere la prima fotografia al mondo che ritragga un essere umano, scattata da Louis-Jacques-Mandé Daguerre nel 1838–1839. In questa ripresa, dove l’esposizione è durata ovviamente diversi minuti, si nota solo la presenza umana di due persone (in basso a sinistra dell’immagine generale, qui a fianco “nel dettaglio”) perché intente in un’attività più “statica” rispetto a quella di altri passanti: il lustrare (e farsi lustrare) le scarpe. E’ vero che in quei minuti c’erano solo quelle due persone lungo la strada ripresa? Probabilmente no, ma le altre sono sparite, il loro movimento non le ha fissate sul dagherrotipo in questione, e quindi questa è stata la prima “bugia” che la fotografia ci ha raccontato, e non ha mai smesso di raccontarle, le bugie. Sono brutte, le bugie? Dipende, a volte come canta una giovane rapper (Baby K):
“Io non racconto bugie, ma verità con più colore” – Baby K
La bugia può essere piacevole alla vista e funzionale al messaggio: Photoshop è la cura a mille mali, può trasformare difetti in perfezione… ma in un mondo di perfezione, il fascino arriva dall’imperfezione, e oggi non a caso la tendenza delle principali dive è quello di apparire “vere”, combattendo questa ricerca della perfezione con la denuncia: vogliono mettere in primo piano l’imperfezione che trova come sinonimo la “sincerità”.
Lo ha fatto qualche mese fa la cantante Lorde, che ha commentato due fotografie pubblicate su Twitter dello stesso concerto, dove in una appare con una pelle perfetta (crema di bellezza: Photoshop) e una seconda dove sono evidenti dei “brutti” brufoli; il suo commento è stato “i difetti sono ok”.
i find this curious – two photos from today, one edited so my skin is perfect and one real. remember flaws are ok :-) pic.twitter.com/PuRhxt2u2O
— Lorde (@lordemusic) March 31, 2014
Lo stesso ha fatto Lady Gaga che ha aspramente criticato la copertina di Glamour che pur la definiva la “donna dell’anno”: troppo (fintamente) perfetta la pelle, troppo “soft” i capelli… lei, la regina del trucco e delle mille sfaccettature, non si riconosceva. Lo ha fatto una giornalista, Esther Honig, che ha “commissionato” a tanti maghi di Photoshop di tutto il mondo un suo “makeup virtuale” (lo abbiamo visto tutti, probabilmente, ma in ogni caso stiamo parlando del progetto Before/After). E, di recente, lo ha ribadito quella Keira Knightley che è stata, come lei stessa ha dichiarato, fin troppe volte “manipolata” anche a sua insaputa nelle fotografie (famoso in particolare il “rigonfiamento” del suo seno nel poster del film King Arthur). In occasione di un recente servizio fotografico per la rivista Interview (per la cronaca, co-fondata da Andy Warhol), realizzato da Patrick Demarchelier, l’attrice ha accettato uno scatto a seno nudo, ma solo avendo la garanzia di non “subire” alcun ritocco in fase di pubblicazione.
Finzione o realtà in fotografia: quale il ruolo del professionista?
Come si deve comportare, un fotografo professionista su questo tema? Deve garantire immagini “reali”, oppure deve raccontare finzione? O deve trovare una soluzione politica del “raccontare verità con più colore”? Prima di tutto, il fotografo deve decidere da che parte stare: è al servizio di un cliente, di un prodotto e quindi il suo compito è quello di produrre le più seducenti e accattivanti immagini? Oppure è un giornalista? un cronista? E’ il narratore di una storia che deve riflettersi in uno specchio chiamato “etica”? Facile (e poco utile) rispondere in modo semplicistico con un concetto che sviolina la “deontologia professionale dei giornalisti”, specialmente in Italia, perché forse avrebbe senso prima leggere qualcosa in merito, per esempio questo articolo, tanto per cominciare.
La risposta da dare è difficile, ognuno deve trovarla dentro di sé, ma vi “proponiamo” qualcosa da valutare, che forse può aiutare nel determinare un approccio. Lo si può vedere nel video che pubblichiamo, realizzato circa un anno fa dall’agenzia DDB Group Singapore e che ha vinto un Leone d’Oro a Cannes (nella manifestazione dedicata alla pubblicità).
In questo video si parla di un progetto chiamato Third Eye, che purtroppo sembra abbandonato a sé stesso (c’è un’app su iOS, non abbiamo trovato nulla su GooglePlay), e uno scarno comunicato/post qui. Ma non importa, nel senso che quello che ci interessa in questa sede è trasmettere un concetto. Il progetto – lo si vede dal video – permetterebbe ad una persona non vedente di scattare una foto con il proprio cellulare, e di inviarla a dei destinatari registrati con la missione di essere dei “microvolontari” in grado di guardare quello che la persona che ha scattato la foto non ha potuto vedere, e creare un commento vocale come risposta. Questa metafora ci può forse far capire che il ruolo del fotografo, è di “mostrare”, portare alla “luce” quello che altri non riescono a vedere. In questo c’è molto più che l’oggettività (oggi qualsiasi macaco dotato di una fotocamera può fare una fotografia “oggettiva” e “descrittiva”, è stato ben dimostrato qui), ci sono le emozioni, la storia, i dettagli. Troppo spesso, ci dimentichiamo quanto sia importante questo lavoro, e ci si accontenta del lato più superficiale del nostro ruolo. Realtà o finzione sono solo due elementi di questo impegno: sapere cosa vogliamo raccontare, riuscire a farlo creando valore narrativo ed emozionale… questo è quello che dobbiamo (dovremmo) fare.
Andrea Colombo Lozza says:
Articolo molto interessante! La prima considerazione che mi è venuta in mente è stata quella che, purtroppo, come giustamente scrive Luca nell’articolo, siamo in una società che brama la perfezione, per cui spesso diventa difficile confrontarsi con chi perfetto non lo è (la perfezione non esiste), ma vorrebbe esserlo in fotografia.
Alcuni sono in grado di accettarsi come sono (mi è capitata una sposa che aveva un paio di brufolini su una guancia, ma mi ha detto di non stare a preoccuparmene, perchè “ce li ho, quindi è inutile toglierli dalle foto!”), mentre altre, purtroppo no (persone sovrappeso che chiedono un trattamento dimagrante con Photoshop).
io penso che bisognerebbe sempre mostrare la realtà per come è, ma chi il nostro, come altri, è un mestiere che ha dei clienti, e quindi deve spesso essere frutto di un compromesso tra etica personale e richieste di chi ci paga.
Buona domenica :-)
Riccardo Marcialis says:
Cari Colleghi buongiorno,
mi piace proprio quando il fotografo si “ferma” a meditare su argomenti come questi. Grazie anche al Solito Pianigiani.
L’etica, di cui tanto si parla non è altro che la nostra Coscienza Professionale. A cosa serve?
Le Case che produco tecnologia raccontano persino che i loro prodotti allungano la vita, per questo motivo li ho soprannominati i “Franchi Venditori”.
Ma noi che limiti ci poniamo quando abbiamo a disposizioni strumenti che potrebbero cambiare (in meglio o in peggio) la vita degli altri?
A un certo punto della mia carriera mi accorsi miseramente che ero diventato complice diretto di alcuni miei clienti che mi chiedevano di mistificare (a.e.P.= avanti era Photoshop) materialmente il prodotto e poi, senza pudore, con Photoshop.
Dopo un momento di crisi decisi di appellarmi alla mia coscienza professionale (tra l’altro scoprii di averla e che funzionava bene).
Ebbene, diventai in breve il terapista di alcuni miei clienti e questo mi fece guadagnare tutta la loro fiducia.
Prima, con Photoshop, per loro, ero solo un sicario.
Solo un bravo chirurgo, grazie al suo strumento (il bisturi; meccanico o laser) è in grado, togliendo o aggiungendo ad allungare la vita in agli altri in modo etico.
Possiamo farlo anche noi. Proviamoci.
Daniele says:
Illuminante e interessante come sempre.
Come giustamente sottolinei in apertura di articolo, la fotografia è da sempre oggetto di manipolazione, sia per limiti tecnici (come nel caso del dagherrotipo mostrato; ma questa è la fotografia!), sia per l’esigenza di raccontare in maniera più efficace qualcosa, sia per motivi estetici e linguistici, sia per rispondere ai canoni di alcune mode (alla maniera di). Lo era (manipolata) quando si stampava in due metri quadri di camera oscura, lo è ora coi programmi di gestione delle immagini. Niente di così nuovo in fondo. Ci si concentra troppo spesso su dei falsi problemi (ricordate quanti convegni, libri, articoli agli albori del digitale? E’ fotografia o no? …e la riproduzione fedele del reale? ecc.). Così come ora, assistendo a quest’orgia di immagini (spesso scadenti) a cui molti purtroppo si stanno inconsapevolmente abituando (per carenza di strumenti), ci si concentra ancora su fino a che punto sia lecito manipolare una fotografia. La risposta l’hai data molto bene ora ricorrendo alla metafora del progetto Third Eye: “…il ruolo del fotografo, è di “mostrare”, portare alla “luce” quello che altri non riescono a vedere”. Le mode passano, rimane quel che ha colpito il cuore.
alle bonicalzi says:
Vero, vero, verissimo: la fotografia dovrebbe mostrare ciò che altri non riescono a vedere. Dovrebbe narrare, emozionare… dovrebbe significare (dico io… e lo so che torno sempre sugli stessi temi, per me cruciali!).
Perché una fotografia non è mai (MAI!) «la realtà così com’è» (mi spiace, Andrea, penso di capire cosa intendi, ma non son d’accordo nel dirlo con queste parole)… e non per un ‘limite’ tecnico o tecnologico, ma per struttura. Ontologica ed ermeneutica: è per essenza, infatti, che la fotografia è selettiva (impone una triplice scelta, almeno: COSA inquadrare e cosa escludere dal frame; QUANDO scattare; COME, con quali impostazioni/obiettivo); inoltre, essendo un linguaggio, non può che FARE un discorso su ciò che registra e riproduce.
Se la (o il) fotografa(o) sa ciò che sta dicendo, bene! può dirsi tale (fotografa/o); se non lo sa, le sue immagini ‘parleranno’ ugualmente, ma lei (lui) è una (un) macaca(o)!
E non sto dicendo affatto che in un caso il risultato è bello o buono e nell’altro no…
Sto dicendo che in un caso stiamo parlando di FARE fotografia, mentre nell’altro stiamo semplicemente PRENDENDO delle immagini.
(In alcuni casi basta e avanza la seconda opzione, ma non ne farei un mestiere e meno che mai un mestiere artistico… presto sarà roba da robot, totalmente automatizzata).
My two cents.
;-)
alle
PS. Sono sicura che ci siano molti esempi di fotoritocchi anche maschili o di oggetti… possibile che per parlare di qualcosa si debba sempre/spesso (troppo spesso) utilizzare il corpo delle donne?!?
Avete in mente, vero?: http://www.youtube.com/watch?v=5m4oM_gcZe4 o http://www.youtube.com/watch?v=PTlmho_RovY
Pensiamoci, dai!
:-)
sante castignani says:
Grazie Luca per lo spunto, particolarmente attuale, anche se si tratta di un tema antico. Io credo che se parliamo di fotografia professionale il grande assente oggi sia una committenza consapevole e colta, che sappia chiarire al fotografo gli spazi che gli sono assegnati in un determinato incarico. Personalmente trovo le varie posizioni totalmente equiparabili. Se escludiamo il giornalismo, non credo che la fotografia “debba” essere in un modo o nell’altro, per sua e nostra fortuna può declinarsi in tanti modi, tutti degni se svolti onestamente. Speriamo in ogni caso di non dover attendere la favoleggiata ripresa perché editor, agenti, e clienti in genere aggiornino il proprio senso critico alla release 2.0.
Un saluto e buon lavoro.
Guido Bartoli says:
“Fotografare” = “scrivere con la luce”
Scusate ma non vedo differenze con un cronista, un pittore, un illustratore…
Sempre, quando si comunica, si fornisce un’interpretazione della realtà.
Noi fotografi siamo più rapidi e realisti, mentre un pittore iperrealista ci mette più tempo.
In ogni caso è il bello della vita, anche raccontando la partita a calcetto con gli amici magari qualche particolare lo esalti e qualche altro lo escludi ;-)
Siamo sempre e solo liberi di creare.
Se il cliente o il tuo editore ti chiede di fare una recensione di una fotocamera “cesso” dicendo che “in fondo non è poi male” sei libero di mandarlo a stendere e non lavorarci più o accettare, scrivere quello che vuole, “creando” un pezzo che indurrà altri a comprare quella macchina (anche scrivere è opera dell’ingegno, anche per la legge).
Quindi, come bene dice Luca, “il fotografo deve decidere da che parte stare”.
Come il pittore… siamo proprio sicuri che Cecilia Gallerani non avesse neanche un brufolo piccolo piccolo? ;-) :-)) http://it.wikipedia.org/wiki/Dama_con_l%27ermellino
Sandro Bedessi says:
Articolo interessante e sinceramente mi fa riflettere…non mi sono mai appassionato più di tanto a Photoshop, cioè l’ho usato con senno, e mi è venuto spesso in questi anni un certo rigetto di fronte a tutta la manipolazione delle immagini con le quali viene riempito il web e poi date in pasto alle nascenti generazioni che non sanno più distinguere il vero dal falso…e succhiano dalla rete in ogni momento. Se prima si poteva dire con assoluta certezza:” è così…c’è anche la fotografia!” siamo andati a finire che proprio perché è una fotografia (o un video )non c’è da fidarsi della veridicità di ciò che si vede, per cui sono contento di essere ” rimasto” dove sono sempre stato e attaccato a quel concetto di fotografia che deve raccontare sì con più colore e carattere ma per mettere in risalto quello che già di suo una situazione racconta.
Ciao a tutti
Luca Pianigiani says:
Sandro, a seguito dell’opinione che “una volta si poteva dire con assoluta certezza…” ti consiglio di guardare al lavoro di John Heartfield, che nell’era del nazismo ha usato la manipolazione della fotografia un’arma potentissima. Senza Photoshop ;-)
https://www.google.com/search?q=heartfield+photography&client=safari&sa=X&rls=en&biw=1271&bih=704&tbm=isch&tbo=u&source=univ&ei=L5NgVIXlDKXP7gb23IEY&ved=0CCoQsAQ
alle bonicalzi says:
Una volta forse ci si fidava di più della fotografia, ma era ingenuità, perché in quanto interpretazione e discorso non è mai oggettivo, certo, assoluto proprio un bel niente…
Oggi ci si fida meno, e può essere triste (?), ma la fruizione è anche più matura, il che è un bene. secondo me.
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