Nella giornata del lancio americano dell’iPad le notizie che si propagano sul web sono tante, ma si tratta essenzialmente di “rumore di fondo”: i fatti sono altri, e vanno oltre alle dichiarazioni di entusiasmo e anche a quelle di critica. Quello che è sicuro è che la “magia” ha dato i suoi effetti: tutti parlano di iPad, tutti vogliono toccarlo, averlo tra le mani. Nel frattempo, il mondo dei netbook (quei computerini piccoli e grassottelli che costano poco e valgono ancor meno – eccezioni escluse – che sono stati considerati la vera rivoluzione dell’ultimo anno) sembra perdere terreno ancor prima che venga immesso sul mercato il primo iPad, che si propone come idea alternativa e più moderna: così viene riportato dal prestigioso Businessweek, in questo articolo.
Non siamo però qui a parlare di iPad, o almeno non direttamente: il fatto è che è stato lui a portarmi a leggere un articolo del mio “adorato” Cory Doctorow, di cui abbiamo parlato recentemente su un SundayJumper. Cory, che è un po’ smanettone (più di me, non c’è dubbio, ma al tempo stesso che mi ha aperto la mente sulla tematica degli hacker), ha dichiarato di non voler acquistare un iPad, e consiglia la medesima cosa per coloro che la pensano come lui. E il senso è che non gli piacciono gli strumenti che non si “possono aprire”, per guardarci dentro, che non si possono modificare, che non possono essere “farciti” con software diversi da quelli pre configurati. E poi parla di un argomento che spesso abbiamo condiviso con voi che ci leggete, e che riguarda il concetto stesso del diritto d’autore: escludendo i terminali “craccati” (jailbracked), non è possibile caricare applicazioni che non siano state regolarmente acquistate dall’AppStore. Gli autori possono dire: evviva, questa finalmente è una buona notizia, ma Cory cita ad esempio l’app della Marvel che ci consente (a pagamento) di leggere i fumetti in formato digitale, ma ci impedisce quell’attività che è nei ricordi bellissimi di tutti noi ragazzini: quello di prestare, di regalare e addirittura rivendere i giornaletti nel cortile della scuola: il digitale, ed in particolare tutto ciò che è protetto da sistemi DRM, non si cede, non si rivende, al limite l’unico diritto che abbiamo è quello di gettarlo in un cestino (virtuale).
Insomma, quello che infastisce Cory è il fatto che veniamo (e probabilmente, visto come sta andando, sempre più sarà così) trattati come utenti, come consumatori. Possiamo “usare” quello che ci viene proposto, ma non possederlo davvero, non usarlo per fletterlo alle nostre volontà. La domanda da porci è: la creatività si sviluppa anche nella manipolazione della realtà che ci viene proposta? Probabilmente si, e forse – finalmente – arriviamo al tema di quello che vuole essere questa riflessione, avvicinandola al nostro mondo di fotografi e di utenti che la tecnologia la usano essenzialmente sotto forma di fotocamera. Molti di noi si sono cimentati in “modifiche” delle costruzioni meccaniche ed ottiche: abbiamo usato obiettivi che non si potevano usare, abbiamo manipolato l’avanzamento della pellicola per ottenere degli effetti, recentemente abbiamo visto un corto – dell’amico Davide Pepe – dove la ripresa con una cinepresa, di fronte ad uno specchio veniva “trasformata” da una martellata sull’obiettivo, che ne distruggeva l’immagine, ma la pellicola continuava a riprendere. Per non parlare dei trattamenti in fase di sviluppo, dove l’uso di sviluppi diversi (cross processing), o della variazione dei tempi, o ancora l’uso di materiale scaduto ha creato risultati che hanno scritto capitoli importanti della storia della fotografia.
Oggi, con il digitale, ma specialmente con l’elettronica, ci siamo adattati ad un ruolo di “consumatori”: prendiamo la macchina, e la usiamo, seguendo le direttive (e anche i limiti) imposti dal produttore. Certo che c’è il computer e Photoshop che (sempre di più…) ci permette di manipolare la realtà scattata ed il limite è solo la fantasia (e a volte il buon gusto) che risiede in tutti noi. Mi domando se questo approccio, di consumatori, ha tolto o potrebbe togliere qualcosa . Per conoscere davvero un oggetto, è necessario metterci le mani sopra, smontarlo, e poi magari rimontarlo seguendo delle soluzioni diverse? Sul web ci sono attive comunità che discutono di soluzioni “non ufficiali” per modificare i settaggi di fabbrica dei prodotti tecnologici, in ambito fotografico è abbastanza famosa la denominata CHDK. Cory dice che non ci devono essere “colle”, ma “viti”: il senso è chiaro, voglio aprire e dominare il mezzo. Avendo grande rispetto per lui, capisco che la tematica è molto più profonda di quello che sembra, che non è come quella di un bambino che vuole smontare le macchinine. Al tempo stesso, qualcosa, di quella voglia di scoperta fanciullesca non può non essere non notata, e ci deve fare riflettere… proprio su questo voglio riflettere.
Sono un utente Mac da sempre, e questo mi ha creato un approccio che ho sempre apprezzato e desiderato: quello di avere uno strumento per fare “quello che volevo”; che non mi imponeva un approfondimento del mezzo stesso, che è solo un tramite. Una macchina Windows, per dominarla davvero, bisogna conoscerla a fondo; per fare le stesse cose su un Mac, bisogna solo pensare a quello “che si vuole fare”: scrivere, usare le immagini, eccetera. La settimana scorsa avevo tra le mani una macchina fotografica che conosco poco, e mi sono accorto che per raggiungere quello che volevo dovevo approfondirne alcune caratteristiche interpretative (non cito in questo caso marchi, perché se no, lo so, si cade in una discussione sterile). Una volta che ho compreso l’approccio, mi sono trovato a ottenere i risultati che desideravo. Insomma, non l’ho smontata, ma quantomeno ne ho dovuto scorrere varie volte i menù.
Forse, davvero, rischiamo di perdere qualcosa, se non mettiamo mano – e in modo approfondito – agli strumenti che usiamo. Sicuramente dominarli completamente apre nuovi orizzonti di creatività e di potenzialità. Mi è difficile pensare che questo debba o possa passare da viti da svitare. Pochi mesi fa ho cambiato per la prima volta nella mia vita la Ram al mio portatile, ed è stato traumatico: era una cosa semplice, eppure ero stressatissimo, perché entravo in un ambito che ho lasciato sempre al di fuori delle mie competenze. Non mi è naturale pensare che potrei hackerare la mia reflex per aumentarne le funzionalità… e nemmeno mi azzarderei a smontarne qualche pezzo, per ottenere dei risultati interessanti, però oggi – leggendo questo articolo di Doctorow – mi sono messo a pensare che forse non avevo considerato un mondo che non passa dal “fare”, ma dal “conoscere da dentro” gli strumenti che uso.
Non cambierò il mio modo di operare: sono troppo vecchio, cocciuto e specialemente non ho tempo di apprendere dalle fondamenta quello che non ho assorbito in tanti anni: per riuscire a capire come funziona, da dentro, un computer o una fotocamera (parlo proprio di componenti elettroniche, di costruzione… non certo della loro operatività pratica, alla quale per fortuna invece ho dedicato parecchio tempo e sforzo), servirebbero anni, e toglierebbe risorse all’approfondimento e allo studio di quello che davvero mi importa: il risultato, la creatività, eccetera. Per questo comprerò (spero…) l’iPad, e sono sicuro che mi aiuterà ad approfondire e addirittura ad “inventare” nuove forme di riviste, di comunicazione, di interazione con il “mondo digitale”. Ma forse da oggi, un piccolo tarlo in più mi porterà a non guardare tutto a scatola chiusa, o addirittura a voler guardare anche le “scatole aperte” (o i sistemi per aprire delle fessure). Alla fine, ovunque ci siano forme di esplorazione creative, avrebbe senso farci un viaggio.