Venerdi 12 aprile, presso la sede di Sotheby’s è stata battuta un’asta importante per il settore della fotografia. Sono state esposte stampe di importantissimi fotografi (nomi leggendari come Basilico, Gardin, Fontana, Galimberti, Scianna, Cartier-Bresson, Parr, Erwitt, Salgado e tanti altri: potete leggere la lista intera e il comunicato qui). Il ricavato di quest’asta verrà interamente devoluto alla Fondazione Forma per la Fotografia, per sostenerla e finanziarla.
Bello, no? Una vittoria della “cultura” con la “C”, maiuscola, che in un momento di difficoltà e di massificazione, di mancanza di riferimenti di alto valore e spessore trova risorse al suo proprio interno. Bello…
Eppure c’è qualcosa che non torna. Non metto in discussione l’iniziativa, anzi: se Forma ha (e lo ha, senza dubbio) la credibilità e l’affetto di questi fotografi, della comunità degli appassionati dell’arte fotografica, al punto dall’essere sostenuta e finanziata, questo è un bel segno di riconoscimento, che merita applausi. Però… però se ben andiamo a guardare, la Fondazione Forma non è poi così abbandonata in un mare oscuro, non è “debole”, si trova nella città più “ricca” di occasioni di incontro e di “utenti”, e specialmente sin dalla sua nascita, nel 2005, è stata sostenuta dalla Fondazione Corriere della Sera, dall’ATM (per chi non è di Milano, è la società dei trasporti milanesi) e dall’agenzia Contrasto. Inoltre, tra i partner hanno avuto il supporto di importanti aziende private. Tra tutte le realtà che si occupano di “cultura“, spesso legate alla semplice passione, ad una realtà pressoché underground, senza risorse, si tratta di una struttura con le fondamenta solide. Se è proprio Forma che deve trovare nel finanziamento esterno e sulla disponibilità di artisti e benefattori privati la sua risorsa per sopravvivere, la domanda che ci poniamo è: come possono fare “gli altri”, che oggettivamente non posso considerare “inferiori” per il solo motivo di essere solamente “più piccoli” (la qualità della proposta culturale non si dovrebbe misurare in “muscoli” e in “dimensioni”, ma in capacità propositiva).
Lo so, sarò come al solito una voce “fuori dal coro“, e qualcuno penserà che questo è un attacco contro una realtà meritevole di tutte le lodi. Non è un attacco, al contrario: è un’analisi che credo debba essere fatta, e non solo perché il mondo che esploro ed esploriamo con la nostra piccola realtà editoriale (in parte sul web, in parte su iPad) è molto diversa, forse meno “colta” (ma chi può dirlo?) ma senza dubbio più fresca e vitale. Il mondo che conosciamo non è in crisi, cresce, si arricchisce di nuovi giovani che si appassionano e cercano di entrare in questo mondo. Che vogliono (anzi: devono!) conoscere la storia e la “cultura formale” della fotografia, magistralmente raccontata da Forma (e da Contrasto, da Magnum, eccetera…), ma che non si ferma a questo. Non è per caso che c’è un’eccessiva attenzione verso un mondo della “fotografia” come la si intendeva in passato, e che non è “passata“, ma che non può essere cristallizzata e vincolata a certe scelte anche artistiche e “snob”? Io sono un ragazzo (per modo di dire) ignorante, ma che ho vissuto la fotografia sin da bambino, sui libri pubblicati da Life, sulle pagine di Epoca, visitando le mostre de “il Diaframma” (poi “Kodak Cultura”, quando la casa gialla l’ha sponsorizzata) di Lanfranco Colombo, e all’epoca questa era la realtà quasi unica (oltre ad andare alla Heopli a sbirciare i libri di fotografia che non potevo permettermi di comprare). Oggi il mondo è “anche” altro, e appassiona molte più persone. Un esempio ben lampante è che l’altro giorno Facebook (lo saprete tutti) ha acquisito Instagram, una società giovanissima che ha creato un’app e un ecosistema online che unisce milioni di persone appassionate di fotografia, per una cifra prossima a 1 miliardo di dollari. Insomma, non si può dire che la fotografia non abbia l’attenzione dei mercati forti…
Qualcuno – immagino tra questi i responsabili di Forma e gli appassionati della fotografia “colta” – diranno che non si può unire il sacro e il profano. Eppure… il futurismo ha insegnato che l’arte dovrebbe andare nelle strade a cercare le persone, uscire dai luoghi popolati solo dagli esperti. Sono molto “futurista” in questo: non c’è arte – specialmente nell’era di Internet – che possa trovare una vera dimensione contemporanea rimanendo circondata da muri, chiusa agli occhi dei “non esperti”, perché molti occhi “non esperti” saranno poi gli esperti del futuro. Non possiamo pensare che la cultura della fotografia sia fatta di nomi “leggendari” e basta, fotografi vissuti (e molti purtroppo deceduti, o non troppo arzilli) quando la fotografia era un linguaggio molto diverso da quello di oggi. Non sto dicendo che dobbiamo toglierci questo valore dai nostri occhi e dalle nostre emozioni, tutt’altro! I ragazzetti che fotografano con l’iPhone e che guardano Flickr hanno bisogno di sapere tutta questa storia, e anche capire cosa questi fantastici narratori di immagini fanno oggi (perché, in qualche parte del mondo, c’è ancora per fortuna lo spazio per immagini di questo valore anche oggi). Ma non possiamo ottenere un effetto opposto, ovvero di impedire a tutti – o quasi – questa visione. Non si attraggono nuove leve con mostre che non sembrano strizzare l’occhio a tutti, in occasioni dove sembra che se non ci si presenta in abito da sera e se non si parla con la “erre moscia” da vero snob, se non si citano almeno cinquanta nomi di fotografi vissuti prima della seconda guerra mondiale.
Dirò di più… la cultura non ha un movimento unilaterale: se è vero che chi arriva “ora” deve conoscere quello che è “successo”, è altrettanto vero che chi ha fatto e creato tanto dovrebbe e potrebbe rimanere affascinato dal “nuovo”, e potrebbe nascere un dialogo molto costruttivo e meravigliosamente bello da condividere. Non è forse quello che manca, per dare un futuro alle realtà culturali, non un futuro solo “finanziario” (i soldi finiscono se non si costruisce futuro solido), ma vera utilità per una collettività ampia. Magari una parte di quei soldi arrivati all’asta si potrebbero investire per creare territori di incontro, strade di dialogo, dove si può condividere, magari aiutare piccole realtà che stanno lavorando in uno strato di “cultura” meno altisonante, ma che riescono ad attrarre persone, realtà, passioni. Il focus è la fotografia, l’immagine, la voglia di comunicare con elementi visuali e multimediali, ma la “piazza” deve essere ben più grande, e molto più multisfaccettata. Tra queste “facce” non solo quelle giovani e “digitali”, ma anche quelle di un mestiere che si sviluppa, con garbo e con passione, in molti negozi, di città e province, che meriterebbe di essere raccontato e mostrato, perché spesso non viene considerato e supportato. Conosciamo tante realtà che stanno facendo eccellenti cose, e non hanno risorse per proseguire un lavoro apprezzato e seguito. E non hanno dalla loro parte le risorse e le aste…
Personalmente sono stufo di continuare a vedere che la fotografia di “valore” debba essere sempre considerata “per pochi”. Voglio (vorrei… voglio!) che sia di molti, che sia condivisa, che abbia porte aperte, che sia giovane, e anche allegra, serena, non solo cupa e tenebrosa. Bello che sia “intensa”, ma se qualcuno dovesse avere bisogno di una mano per capire cosa c’è nella profondità di quell’intensità, vorrei che ci fosse qualcuno che gliela possa mostrare, magari affiancando alle opere più importanti e storiche, anche occasioni più leggere, perché l’osmosi (anche culturale) parte dalla vicinanza, non dalla separazione.
Pensateci, amici di Forma. Non ho comprato alcuna stampa, all’asta, ma spero di avere dato qualcosa di prezioso lo stesso per il futuro della Fondazione. Magari parlarci di più potrebbe non essere una brutta cosa…