La moda da anni – lo si sa e lo abbiamo detto molte volte – è quello di definirsi “storyteller”. Questo atteggiamento è troppo spesso più di facciata, che non di “fatti”, e il mestiere della comunicazione non concede più molto spazio alle “apparenze”, servono fatti.
Diciamolo, non sono 5, 10 o 100 foto messe insieme che fanno una “storia”, anche se poi di fatto si crede che sia così. Imparare a gestire un percorso narrativo richiede molto sforzo. Le persone che “leggono” questa storia, bisogna partire dalle componenti che hanno permesso, nei secoli, di raccontare delle storie. Non siamo esenti, anzi… dobbiamo sempre più trarre esperienza e vantaggio da quanti hanno, prima di noi, raccontato storie. E chi… per esempio?
- I cantastorie, e ancor prima dai giullari, dai menestrelli, dai bardi… Ok, siamo partiti da lontano, ma è da lontano che viene e ci arriva il concetto dello storytelling;
- Gli scrittori di libri: da sempre, chi scrive libri sa (se è bravo) raccontare una storia, faccio sempre un esempio della struttura narrativa di Ken Follett, che è uno dei grandi narratori dell’ultimo secolo. Ken usa una struttura davvero interessante nei suoi libri, non importa se sono spy stories o romanzi storici nel periodo del Medioevo, il suo successo è legato al ritmo, e c’è molto da imparare dal suo stile per capire cosa sia un vero ed efficace storytelling. C’è una bellissima intervista che è stata fatta da La Repubblica, qualche anno fa, che vi consigliamo di leggere integralmente, perché consiglia una serie di elementi su cui riflettere. Per esempio, il cronista chiede come si può riuscire ad non annoiare il “lettore”:
“È veramente difficile. Troppo lento e il lettore mette via il libro e accende la tv. Troppo veloce, e si sente disorientato. La mia regola è che ci dovrebbe essere un colpo di scena, un evento che cambia la situazione dei personaggi, ogni quattro o sei pagine”.
Prendiamo le “vostre storie”, il vostro “storytelling”: siamo sicuri che non rischia di cadere nella “noia”? Dove e come costruite il vostro “ritmo”, quali i “colpi di scena”? Follett parla di “pagine”; ma non ci sono “pagine” anche nella vostra narrazione, in un album di matrimonio o in un libro, o in un sito?
- Gli sceneggiatori dei film: è il campo dove più si può apprendere. Leggiamo, dalla pagina di promozione di un corso dedicato a questo aspetto (non ci interessa linkarlo, solo perché non ne conosciamo il valore e quindi non vogliamo orientare senza avere una indicazione di “buon consiglio”):
Il corso è indirizzato a tutti coloro che vogliono conoscere le arti e le tecniche della scrittura per immagini. Lo studio e la conoscenza della figura dello sceneggiatore e di tutti gli elementi della realizzazione di un film sono fondamentali per compiere i primi passi in questa professione.
Ecco, stiamo parlando o non stiamo parlando di quello che “davvero” volete fare, con lo storytelling? Allora, perché rimanere ancorati al mondo della fotografia, senza guardare oltre? In giro vediamo tanto parlare di fotografia, ma non di sceneggiatura. Ci parlano di sviluppo del RAW, delle tecniche di coloring, dei megapixel, quando tutto questo, se davvero serve (e ancor più, se servirà a distinguere un prodotto di qualità professionale da uno scadente), arriva solo dopo la capacità narrativa.
Se volete puntare al massimo, e se il vostro inglese vi aiuta, un riferimento (questo si, ce la sentiamo di consigliarlo), è il corso di Aaron Sorkin sulla piattaforma Masterclass: Aaron Sorkin Teaches Screenwriting | MasterClass
Se non sapete chi sia Sorkin, beh… ecco un buon motivo per capirlo subito, perché lui è uno dei maestri indiscussi della sceneggiatura.
Una storia ha comunque un punto di partenza, dei personaggi, delle tensioni, dei percorsi che si intrecciano, un apice (climax), una conclusione. In questo percorso, serve far entrare gli utenti, accompagnarli, emozionarli, dar loro motivi e desiderio di proseguire, e non di fermarsi, tenerli concentrati e non lasciare che mille altre cose li distraggano. La sceneggiatura serve a questo, e la storia deve essere studiata prima, e non dopo avere scattato le immagini.
Oltre alla storia, il contenitore: come fare storytelling che funziona (e che si vende)
C’è un secondo punto, da sviluppare: la storia non è sufficiente, serve il contesto, il contenitore, il formato, il metodo di fruizione. Siamo in un’era che ci chiede di venire incontro agli utenti, e non di aspettarci di essere raggiunti. Ancor di più, ci chiede di proporre le nostre storie su vari canali, interconnessi tra di loro: si parte dalla carta e si arriva al digitale, le immagini “fisse” diventano poi “movimenti”, il visual si integra al testo, al ritmo, all’interazione. Non può (quasi) più esistere un solo media, un solo contenitore. E, nella narrazione, servono variabili di forma e di supporto che, per ogni specifica storia, possono trovare evoluzioni e proposte.
Qualche giorno fa abbiamo tenuto un JumperCamp dedicato all’editoria Indie, grande successo di pubblico e di persone che hanno prenotato il video (che arriverà tra breve a tutti). In quel contesto abbiamo lanciato un importante messaggio, andando contro all’ovvio di quello che sono i “contenitori stampati” che i fotografi producono, o meglio che si fanno produrre. Parliamo degli album di matrimonio, che hanno una costruzione narrativa molto tradizionale, che non risponde più (o molto poco) alle esigenze di un pubblico che è abituato a vivere le emozioni delle “storie” ad un ritmo veloce, in tempo reale, e specialmente con mille variabili originali. La struttura dell’album ha quasi sempre un punto di “forza” che è la copertina, che spesso è un semilavorato prodotto da terze parti e che agisce da “contenitore esterno”, dentro poca fantasia, un supporto (la carta fotografica) privo di opzioni e di varianti, nessuna finitura diversa dall’ovvio, e una struttura di impaginazione che dimostra quasi sempre una mancanza di interpretazione narrativa. Abbiamo parlato di riviste, di tipi di stampa (quale esperienza avete sui sistemi di stampa alternativi a quelli fotografici?), carte, finiture (totali o localizzate). Tutto questo, insieme ad un corretto e profondo uso delle tecniche di impaginazione, che richiede come detto tante volte non strumenti primordiali come Lightroom o Photoshop, ma Indesign. Serve capire che una narrazione è legata ad una gerarchia: sopra, sotto, grande, piccolo, a destra, a sinistra… e in moduli: un contenuto a destra grande il doppio di uno a sinistra moltiplica il peso del suo messaggio, una posizione e una dimensione sussurra, un’altra “urla”, ma tutto deve avere un equilibrio e un ritmo, visivo e narrativo.
Smettiamola di chiamare “storytelling” una sequenza di fotografie, ci vuole molto di più; interrompiamo questa abitudine (fatta di tradizioni, che hanno bisogno di essere portate avanti ma anche attualizzate) che tutto nasca e finisca con un “monumento” statico e chiuso: un album deve essere come una rivista, dinamica, aperta, che propone narrazioni trasversali e complementari. Noi crediamo fermamente che questa sia una formazione che serve, più che mai, ai fotografi che vogliono avere un ruolo importante in questo storytelling visuale. Ed è quello che insegniamo, ogni giorno, ai nostri ragazzi in Università, e solo loro probabilmente sanno quanto sia difficile, ma anche quanto poi sia meraviglioso quando lo imparano. Stiamo accompagnandone molti verso la trasformazione di progetti di scuola e di tesi in vere riviste che sono eccellenti progetti di storytelling. Vorremmo farlo anche con voi, con chi lo vorrà. Consigliamo di iniziare proprio dal corso appena proposto, acquistando il video da qui. E poi, se volete, possiamo iniziare a raccogliere richieste per creare un percorso su come trasformare tutto questo in prodotti reali.