Vogue contro le fashion blogger, le analogie (perdenti) con il mercato dei fotografi

Vogue contro le fashion blogger, le analogie (perdenti) con il mercato dei fotografi

Vogue vs fashion blogger

 

La guerra scatenata (tardivamente) da Vogue nei confronti delle fashion blogger rischia di raccontare, con altri sapori, la battaglia dei fotografi professionisti nei confronti degli “Smartphone Boys” (and girls).

Se ve la siete persa, storia è questa: durante i giorni della Milano Fashion Week (21/27 settembre 2016), le patinate redattrici di Vogue USA hanno scritto acide frasi per denigrare le “influencers” (le fashion bloggers ora si fanno chiamare così), accusandole di passare tutto il loro tempo a mettersi in mostra, cambiando vestito ad ogni istante sia per mettersi in luce, sia per rispondere a specifici accordi commerciali con vari stilisti, che le pagano per indossare i loro capi ed accessori.

Fa sorridere, questa presa di posizione. Vogue USA individua in questo esercito di ragazze il “vero nemico”, mostrando debolezza e preoccupazione? Non è un bel segnale, fanno una brutta figura e mettono ancora più in luce quello che, in teoria, vorrebbero (con tutta la loro “autorevolezza”) affossare. E poi, come giustamente scrive Rivista Studio, non si tratta di una discussione vecchia di 6–7 anni? Perché rispolverarla, e con quali conseguenze? I fatti sono evidenti: in un momento in cui l’editoria di “peso” non riesce più ad attrarre (lettori, inserzionisti) e che non riesce ad inventare nulla di nuovo, il divario si fa sentire sempre di più, i riflettori da una parte si spengono, dall’altra invece sono sempre più intensi. Cambia l’approccio, e il mercato si muove: le fashion blogger non solo parlano una lingua “ascoltata”, spesso ci sono più utenti sui social e sui siti di queste “ragazze” che non su quelli ufficiali dei grandi editori, e comunque questi ultimi cercano di recuperare terreno proprio usando “la stessa lingua”… sono passati dall’essere inseguiti ad inseguitori. Ma, ancor di più, il pubblico che compra (compra… non ne parla e basta… spende soldi, aumentando il fatturato delle aziende) è influenzato molto più da una fashion blogger che non da una dama dei salotti bene.

Forse, la risposta a questo attacco arriva dal lavoro di riposizionamento online che sta tentando proprio Vogue USA per recuperare credibilità e popolarità nell’ambito dell’area Digital, dove lo scontro è quindi violento, e si misura in numeri e non solo in atteggiamenti o frasi ad effetto. Sullo stesso terreno, quello che conta sono i risultati, non la storia, non quello che si è costruito in decenni… l’effetto è conosciuto e temuto da tutti: non vale quello che sei stato, nel mondo digitale sei quello che vali oggi. Se guadagna più “Like” una fashion blogger di una giornalista accreditata, tutto il resto conta poco. E’ brutto? Probabilmente si, ma piangere non cambia le cose. Questo deve far riflettere molto seriamente non solo nel mondo della moda (di cui chi scrive non può certo definirsi esperto: il colore della polo/maglietta ogni giorno ha un solo parametro di scelta, è solo il primo della pila nel cassetto, tanto come pantaloni ci sono i jeans, che notoriamente vanno bene con tutto), e nemmeno nel mondo dell’editoria (che pur, questo si, è il nostro campo), ma quello che sta al centro di questa rubrica di Jumper, dedicata ai fotografi professionisti.

I fotografi professionisti da anni – con vocetta acida – cercano di trovare uno spazio di separazione dall’universo di chi fa foto, poco importa se con uno smartphone o con una reflex… quelli che “non possono essere confrontati”. Lo fanno dichiarando che le foto in giro “fanno schifo”, che sono realizzate senza sensibilità e sono prive di contenuti e di valore narrativo (vero, purtroppo anche buona parte di quelle scattate dai professionisti), oppure si atteggiano a “maestri” per ottenere due effetti: quello di mantenere l’ipotetico e sperato “gap” tra loro e la massa, oppure perché sperano di raggranellare qualche soldo “insegnando”, ormai ci sono più insegnanti di fotografia che non fotografi che si fanno pagare per realizzare fotografie.

Vogue, le fashion blogger e il mondo dei fotografi professionisti: analogie e pericoli.

La Photokina appena chiusa è stata una occasione per confermare che la fotografia va a due velocità: quella della massa (che corre velocissima, come innovazione e come numeri), e quella di chi ama questo mondo (per passione, per lavoro, per missione). Questo interessante articolo di The Verge mette bene in evidenza la situazione di un mercato che sta parlando a se stesso, e cerca motivi per sopravvivere nella sua forma originale, ricercando gusto e strumenti dal passato. Oggi i costruttori progettano, realizzano e propongono macchine che più che “servire” rispondono ad una esigenza dell’appartenenza e del possesso. Si sono viste macchine “che desideriamo avere” (personalmente, se potessi, ce ne sono almeno mezza dozzina che vorrei avere tra le mani): sono oggetti bellissimi, ma non necessariamente oggetti “che ci servono”. Non vogliamo dire che non siano “utili”, ma che il mercato di chi compra le nostre foto non ci chiede; le chiediamo noi, vogliamo averle, possederle, impugnarle, perché ci regalano sensazioni meravigliose, e specialmente ci differenziano da tutti coloro che – beceri, insensibili, grezzi – riempiono il mondo con miliardi di fotografie usando cellulari o fotocamere che “semplicemente fanno foto”.

sj_photokina2016

Questo mix di tendenze ci riporta alle discussioni/accuse delle redattrici di Vogue USA contro le fashion Blogger (scusate, “Influencer”): vogliamo davvero trasformarci in tristi e acidi difensori di quello che era “il passato” o vogliamo essere quelli che cavalcano il futuro? Vogliamo ricercare in tutto quel tuffo nel passato, o vogliamo – più utile – immergersi nel presente e cercare strategia per il futuro? Allora usciamo prima di tutto dall’atteggiamento che porta a credere che “il nemico è là fuori”, il peggiore nemico siamo noi che non siamo capaci di affrontare il futuro, che non ci crediamo, che pensiamo che “sia poco bello”.

Cerchiamo di capire cosa e come chi oggi è più visibile di noi con il proprio “lavoro” sta realizzando: come stile, come uso dei media, come presenza online, come vengono “usati” dalle aziende, come riescono a trovare spazi e occasioni. Concentriamoci su “cosa fare” e non “come fare”, guardiamo alla tecnologia e ai nuovi strumenti con un occhio più pratico (cosa mi permette di fare di diverso) invece che trovare in una sensazione tattile, in un valore qualitativo basato su teorie passate (siamo sicuri che un sensore più grande garantisce maggiore qualità? Solo perché lo dicono? Solo perché “era così” una volta, ai bei tempi? Siamo sicuri che ci farà vendere ad un prezzo più alto o un maggior numero di volte il nostro lavoro? Siamo sicuri che “è ancora così” in termini percepiti dal mercato di chi compra le nostre immagini e non solo da noi che pretendiamo di avere un “occhio di falco”?).

Se volete invece rimanere ancorati al passato, sappiate che sarete le perfette vittime di un marketing che vuole riportarvi (virtualmente) nel passato, perché sarete il target perfetto di chi vuole vendervi questa illusione, se state cercando un sorriso compiacente lo troverete facilmente in un angolo di una strada buia, basta che non vi illuderete di poter trovare, in questo modo, l’amore vero…

 

PS (importante): tutto questo discorso ovviamente NON vuole dire che non ci sono alternative, non diciamo che la formula del “seguire il mercato” sia obbligatoria, anzi. C’è molto spazio per nicchie di mercato che puntano sulla qualità più raffinata, sulla cultura, sulla ricerca creativa. Quello che NON funziona, secondo noi, è usare una strategia che cerca di farci mantenere un ruolo in questo mercato semplicemente attaccando altre forme di fare fotografia, che sono DIVERSE, non da combattere. E’ il marketing che deve cambiare, non il risultato; il marketing che tenta di mostrare i limiti degli “altri” non fa altro che apparire debole e addirittura patetico chi adotta questa strategia.

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