
Editoriale
Cosa c'è di più umano della paranoia, di questi tempi? Siamo di fronte alla più potente evoluzione della specie umana, e invece che affrontarla con coscienza, come opportunità, come domande da porre e risposte da ricercare, la si vive con paranoia.
L’Intelligenza Artificiale si espande come una marea silenziosa, invade i margini delle nostre vite quotidiane e le pieghe delle nostre economie, e più si fa vicina, più la percezione collettiva sembra allontanarsene. È come se, al posto di accogliere la sfida con lucidità e immaginazione, ci stessimo lentamente rifugiando in uno stato di ansia diffusa. Una paranoia che si veste di prudenza, ma che spesso è solo una forma più elegante della rinuncia, dell’isolazionismo, del tentativo di “tornare indietro”. Sono tanti anni che ci occupiamo di “innovazione”, e di questa abbiamo fatto il nostro mantra, il nostro obiettivo di vita, la nostra fonte di energia; possiamo garantirvi l’unica cosa di cui possiamo assolutamente essere sicuri, nell’insicurezza generale: indietro, non si torna mai.
Questo numero di Aiway Magazine vuole parlare delle paranoie, cercando di affrontarle comunque con rispetto, perché sono un sentimento che influenza la vita di molti, e non possono essere trattate con superficialità. Siamo umanisti, siamo romantici: le persone sono quelle che ci interessano di più, la tecnologia è e deve essere, secondo noi, un mezzo per migliorare la vita di tutti, e per riuscirci serve vederla anche in senso critico, prevedendo le conseguenze negative, sapendo però – proprio perché siamo umanisti – che se le tecnologie generano conseguenze negative, la colpa è solo ed esclusivamente umana: ci sono umani che non meritano di rientrare di diritto in questa categoria per il solo fatto di essere nati “umani”. Siamo convinti che dovremmo abbandonare l’idea che possa esistere uno ius soli dell’umanità, una cittadinanza automatica concessa per biologia, per appartenenza di specie, come se bastasse la carne e il sangue per accedere al privilegio di essere chiamati “esseri umani”. Dovremmo domandarci – e domandare -cosa abbiamo fatto (davvero) per meritarcelo? In che misura pratichiamo l’umano come approccio e come missione, invece che semplicemente incarnarlo? Forse, in questo tempo di accelerazione algoritmica, bisognerebbe riscrivere la grammatica dell’umano non più come stato, ma come intenzione. Non più come diritto ereditato, ma come azione quotidiana. Un’umanità che rinuncia alla curiosità, alla ricerca, alla responsabilità condivisa, è ancora degna di questo nome? Se temiamo che le macchine ci somiglino troppo, non è forse perché abbiamo smesso di somigliare a noi stessi, in quanto esseri umani?
Ma di quali paranoie, la grande porzione delle persone, sta vivendo, quando pensa all’AI? La paranoia dei falsi contenuti, del lavoro che scompare, del controllo che ci sfugge. Paranoie di perdere “l’umano”, che sembra essere e dover essere sempre un diritto, ma mai un dovere, un riconoscimento e mai un impegno. Si ha la paranoia che l’AI sappia troppo – o troppo poco. Ogni giorno una nuova fobia: quella delle immagini generate, delle voci clonate, dei chatbot che scrivono articoli, degli agenti che prenotano voli o scelgono investimenti, delle auto a guida autonoma che vanno a schiantarsi uccidendo i passeggeri. Ma sotto questa superficie si muove qualcosa di più profondo: la paura che l’evoluzione ci stia scavalcando.
Quello che invece dovremmo avere è una paranoia nei confronti della nostra riluttanza ad avere un ruolo in questa evoluzione, togliendola o riducendo il potere di coloro che stanno, in questo ambito, agendo con una lucidità spietata, fatta di investimenti giganteschi, concentrazioni industriali senza precedenti, e una visione del futuro che non lascia spazio ai tentennamenti. Quante sono le persone in giro che si dichiarano contro l’AI ma poi passano ore e giorni sui social di Meta, sulle chat di Whatsapp che usano l’AI per rubarci tutto, che continuano ad usare X (Twitter) anche dopo che la mancanza di responsabilità dell’AI di Musk si permette di inneggiare al nazismo, che continuano ad usare Google che sta preparando la più grande azione per guadagnare tutto il mercato unendo ricerca e AI per portare – come un pifferaio magico – tutti verso un immenso luogo che finge di chiamare ancora “Internet” e ancor di più “Internet libero” ma che in realtà è ormai il suo territorio conquistato e gestito: come uno stato, come un pianeta. Perché si va in paranoia per l’AI e non si inizia a combatterla nelle aree più buie e negative? Perché, alla fine, vince la pigrizia, l’opportunismo, la mancanza di voglia di approfondire e di capire.
Questo numero vuole parlare quindi di queste paranoie, al fine di analizzarle, isolarle, e vederle in una nuova prospettiva costruttiva. Per comprenderle e risolverle pensiamo che sia utile parlare direttamente con le macchine, e non con chi le governa, perché se lo faremo, potremo, anche in questo caso nel nostro piccolo, invertire l’andamento dell’evoluzioni, non cercare di sopprimerle (inutilmente). Perché è fondamentale imparare a parlare con le macchine, senza lasciare il potere a coloro che vogliono – per i propri interessi – metterci in bocca e tra le mani gli strumenti e le interfacce per controllarci quando ci rivolgiamo alle macchine. Siano questi imprenditori, Stati, o governi: non sono loro che devono determinare, gestire e controllare questo dialogo e questa collaborazione, devono solo darci (e li paghiamo per questo) strumenti per la nostra espressione e per il nostro sviluppo.
Parleremo nello specifico delle paranoie legate all’Europa, che sembra aver scelto il rifugio dell’autoregolamentazione come alibi per la “non azione”. L’Europa, oggi, è un continente che parla di diritti digitali mentre il resto del mondo costruisce le piattaforme che li ridisegneranno. È un approccio giusto, potenzialmente e teoricamente, ma siamo sicuri che queste regolamentazioni saranno scritte da persone che davvero sanno cosa sta succedendo, cosa succederà, da cosa davvero dobbiamo difenderci? Perché al momento sembrano valanghe di parole che dicono che dobbiamo tutelarci, a cosa dobbiamo dire no (bloccando molte opportunità delle aziende europee di competere a livello globale), e poi sembra che affideremo la nostra infrastruttura di comunicazione globale ai satelliti di Elon Musk: bizzarro, no? È come se avessimo paura di disturbare il futuro, o peggio ancora, di sbagliarlo, ma nel frattempo, non ci accorgiamo che a forza di non osare, stiamo diventando irrilevanti.
La paranoia non è solo istituzionale. È diventata estetica, culturale, psicologica. È entrata nei nostri dispositivi, nei social, nei flussi informativi che attraversiamo ogni giorno. Ci fidiamo meno. Di tutto. Di chi scrive, di chi parla, delle immagini che vediamo, ma davvero è l’AI a generare questa sfiducia? O forse è solo l’ultimo anello di una catena che si è spezzata da (tanto) tempo? L’intelligenza artificiale non ha inventato la crisi della verità: ha solo reso evidente che non abbiamo più contesti condivisi per riconoscerla.
Mentre dibattiamo (dibattono) tra copyright e trasparenza algoritmica, ci stiamo perdendo l’unica vera rivoluzione in corso: quella del valore. Per la prima volta, i sistemi intelligenti possono diventare soggetti addirittura economici. Possono effettuare pagamenti, sottoscrivere micro-servizi, trasferire denaro, coordinare supply chain, generare ricavi, gestire investimenti. Le stablecoin e i sistemi di pagamento da macchina a macchina (machine-to-machine economy) sono già qui. Non sono futuri lontani, sono prototipi funzionanti, e ancora una volta ci sono giganti (decisamente non buoni) che stanno vedendo come scalare la montagna del vero potere, quello dei soldi, mentre tutti guardano da un’altra parte. Con queste rivoluzioni del “valore”, si apre un mondo dove il denaro non passerà più dai circuiti tradizionali, dove lo Stato perderà centralità, dove la banca – intesa come istituzione – smetterà di essere garante universale. È uno scenario che fa tremare, ma solo se si pensa che gli attuali custodi del potere finanziario abbiano davvero operato per il bene collettivo. Se torniamo indietro con la memoria, nemmeno troppo lontana, ci accorgiamo di quanto questa centralità ha creato disastri.
Tutto questo, naturalmente, fa paura. Ma è una paura mal posta, perché non è l’AI a essere incontrollabile: è l’architettura geopolitica che le stiamo costruendo intorno a non garantire alcuna fiducia. Non sono le macchine a sostituirci: siamo noi a non sapere più cosa vogliamo essere. La paranoia – in fondo – è il sintomo di una malattia più vasta: quella dell’immaginazione addomesticata, dell’accettare che le cose non cambiano, e che non vogliamo cambiarle.
E allora forse è tempo di un nuovo illuminismo. Ma non calato dall’alto, non fondato su commissioni o decreti, non venduto come “nuova versione” dell’umano 2.0. Serve un illuminismo del quotidiano, che parta dalla coscienza delle persone, dal basso, dall’attivismo culturale costruttivo, e non distopico. Dal desiderio di imparare, di esplorare, di costruire, di sbagliare. Dalla volontà di non delegare tutto a chi promette “sistemi sicuri”, perché sappiamo che la sicurezza promessa è sempre, in qualche modo, una forma di dominio.
Questo nuovo illuminismo sarà lento, disordinato, impuro. Ma sarà nostro. Non ci salverà dalla complessità, ma ci libererà – forse – dalla paranoia. Benvenuti, questo è il numero dedicato alla paranoia, e all’unica arma per combatterla: la coscienza.
Le copertine di questo numero 6 di Aiway Magazine raccontano le riflessioni su chi siamo, sulle nostre paure, sulle nostre speranze, che si riflettono in specchi che ci impongono di prendere coscienza della realtà, superando l'oscurità della paranoia
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