Le mille storie invisibili delle Olimpiadi
Mentre completavamo questo numero, iniziavano le Olimpiadi di Parigi 2024, l’evento più importante al mondo dal punto di vista dell’audience; la cerimonia di apertura è stata vista da 1 miliardo di persone. Quando il pubblico è così ampio, tutto i amplifica, tutti cercano di trarne occasione per discutere, polemizzare, oppure esaltare.
Poi sono iniziate le gare, con tante storie che si sono intrecciate e solo alcune vengono scoperte e sono state raccontate, ancora una volta la rincorsa del cavalcare la notizia, serve a trarre chissà quale beneficio, per riempire ore (giorni) di vuoto. Già, perché far parlare la giovane nuotatrice che si dichiara felice anche se ha perso una medaglia per 1/100 di secondo, e il pubblico – che usa il concetto di “partecipazione”, il concetto primario della filosofia delle Olimpiadi, per limitarsi al semplice “commentare” – non è pronto a dichiarazioni di questo tipo (vorrebbero vedere piangere chi perde), quindi deride, critica oppure cerca il pretesto di individuare in una singola risposta la soluzione a tutti i dubbi per “comprendere una generazione” (come se i singoli debbano anche rappresentare con le loro reazioni personali un universo che è solo – e al tempo stesso grandiosamente – il loro mondo). E poi le polemiche su chi tira pugni e chi li prende, sul chi piange, sul fatto che oggi forse dovremmo riconsiderare delle regole perché l’umanità è cambiata: reagire ad una partenza con un tempo inferiore a 100 millesimi di secondo è da considerarsi una falsa partenza (studi hanno dimostrato che sarebbe più corretto impostare ormai il valore di 80 millesimi di secondo come “limite umano”).
Parole, discussioni, poche storie per raccontare mille storie, che si moltiplicano per migliaia di giorni, perché una preparazione atletica per le Olimpiadi dura migliaia di giorni, con sacrifici che sono tutto meno che visibili in mondovisione, che non richiedono nemmeno una goccia di inchiostro sui giornali, che non diventano storie virali. E sono storie fatte di fatica, di sudore, di qualcosa che differenzia gli umani dalle macchine. Le macchine non sudano, le macchine non compiono sforzi inutili e non capiscono perché dovrebbero farli.
Un progetto (ciao Matteo, ciao Pitta) che abbiamo seguito in Università (e che è ancora in fase di completamento) ha esplorato come questo rapporto tra sport, fatica e sacrificio potesse essere un confine che separava umani dalle macchine, intelligenza umana e intelligenza artificiale. Non per arrivare a decretare una vittoria di una o dell’altra parte, ma per acquisire una presa di coscienza sulle differenze e anche per fare un percorso di integrazione, tra umani e computer. Forse, nel prossimo futuro, distingueremo gli esseri umani dai robot – in una visione che ci avvicina a Blade Runner – per la capacità degli umani di sudare e di provare piacere nel fare “fatica”.
In questo spazio su Aiway abbiamo pensato di omaggiare le mille storie di mille giorni di oltre 10 mila atleti che hanno partecipato a Paris 2024, le abbiamo visualizzate con l’AI per avere “persone che non sono vere”, che non sono “reali” ma che vogliono rappresentare tutti quegli atleti e atlete che non si vedono, che non si possono vedere, a cui nessuno presta attenzione, che nessuno racconta e di cui nessuno è interessato a leggere o ascoltare la storia. E che invece sono, tutti insieme e in ogni singolo individuo, il vero spettacolo della purezza dello sport, uno spettacolo che non ha al centro i soldi, non la fama, non la discussione sterile, ma il silenzio, la solitudine, perché lo sport è quasi sempre solitario, specialmente quello individuale, ma anche quello di squadra, perché ci sono momenti di incertezze, di crollo, di paura che si vivono da soli anche quando si è tra tanti.
Abbiamo cercato di creare dei ritratti che hanno uno stile che voleva togliere tutto il rumore di fondo, tutto il luccichio, tutti i riflettori puntati. Perché tutto questo eccesso non è per quelli puri che volevamo omaggiare; per quelli che, una volta dopo avere gareggiato, torneranno nel silenzio e nell’anonimato, che forse riuscirà a tornare a brillare per qualche istante solo quando, sfogliando un album di fotografie (che ora non esistono più, si guarderà Instagram…?) con i nipoti rivivranno all’interno delle proprie case e solo per qualche istante quelle emozioni., dicendo… vedi, vedete, qui c’è la nonna (o il nonno) 50 anni fa a Parigi, e no, non hanno vinto una medaglia, ma hanno fatto parte di un evento incredibile, anche se nessuno li ricorda.
E invece proprio le mille storie di mille giorni di oltre 10 mila atleti che abbiamo provato a mettere in luce qui, possono essere e sono un bene per tutta l’umanità; un bene che andrebbe conosciuto, condiviso; un bene profondo che dovrebbe alimentare globalmente e universalmente il sapere, la conoscenza, le emozioni, la cultura, la sensibilità di tutti, perché sono un valore sul quale costruire un futuro che invece sembra lasciare spazio solo ai vincitori, solo a quelli che poi dimostrano il loro valore grazie a capacità che non necessariamente sono quelle migliori. I migliori per raccontare il vero spirito dello sport sono forse quelli che sono diventati ricchi, solo quelli che grazie allo sport hanno guadagnato spazio sulle copertine, negli spettacoli televisivi? Eppure, solo di questo si alimenta l’informazione e anche quel sapere che viene raccolto e che diventa sapere universale all’interno delle gigantesche piattaforme di AI.
Sarebbe bello creare un modello di AI piccolo, verticale, indipendente, che possa raccogliere tutte queste infinite storie dei singoli, di quelli che sono gli sportivi invisibili, ma che – tutte insieme – potranno raccontare questo spirito che possa poi propagarsi. Un potere fatto di così tanti dati che l’intelligenza artificiale potrebbe raccogliere (non certo un media e neanche un database semplice), gestire, e poi permettervi un accesso a tutti per ispirarsi, per non far cadere nel nulla tutto questo valore umano di cui sentiamo o dovremmo sentire l’esigenza.
Forse stiamo toccando tasti e visioni che ci possono mostrare come usare l’intelligenza artificiale per conservare e far prosperare l’umanità (dal punto di vista umano, e non del business). È ovvio che lo stesso discorso andrebbe allargato a tutte le categorie di esseri umani, perché in ogni essere umano ci sono migliaia di storie importanti, ma partire dallo sport è comunque, secondo noi, un buon inizio: lo sport ci porta ad essere esseri umani migliori ogni giorno, ci stimola a dare il meglio di noi, a superare i nostri limiti. E quindi si potrebbe partire da qui, in un momento in cui si inizia ad incrinare l’hype dell’AI (perché misurato solo in termini di quanto rende, di quanto genera come utili, di quanti miliardi davvero può generare), rimettere il timone sulla traiettoria giusta potrebbe essere una mossa… vincente.
Immagini @meteoavverso
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