Editoriale

L’era della Simbiosi

In questo periodo si sta parlando molto di nuovo hardware ed è un tema di innovazione che definiremmo strano: da tanti anni, infatti, forse dalla nascita dello smartphone di nuova generazione (iPhone, gennaio 2007), il panorama dell’informatica è stato prevalentemente legato ad una progressione del software e dei contenuti digitali: l’hardware si è evoluto, migliorato, ma non è cambiato. Si è parlato molto di innovazione hardware, a parole (pensate a quello che ci si inventa per motivare la nascita ogni anno di una nuova generazione di smartphone, dove quello che cambia è davvero da ricercare nei dettagli minimi) e non sono stati certo i tanto osannati come “rivoluzionari” indossabili (smartwatch, cuffiette audio bluetooth, visori per il VR) ad essere in grado di cambiare di molto le nostre abitudini, e ancor meno la nostra vita.

Le vere rivoluzioni degli ultimi 15 anni della tecnologia digitale sono state legate alla fruizione delle informazioni (social), all’intrattenimento (sempre social, e poi lo streaming delle piattaforme video e audio), e poi al fenomeno delle app, del cloud computing, degli abbonamenti digitali, poi del passaggio alla proprietà virtuale come nel caso della blockchain e degli NFT… tutte questioni legate all’economia del software, dell’immateriale.

Ora, invece, è arrivata l’AI, che pur rappresentando il punto più alto del concetto stesso dell’immateriale, del software, dell’intangibile (anche l’intelligenza umana si percepisce, ma non si può toccare), sta mettendo in evidenza l’esigenza di pensare a nuovi hardware, che con ogni probabilità si svilupperanno verso due percorsi, che non necessariamente seguiranno strade opposte e nemmeno parallele, ma probabilmente si uniranno:

1) Hardware diversi nel loro interagire con noi “umani” (e noi con loro), cercando di sostituire il modello informatico inventato dallo smartphone, che ha guidato l’umanità verso un nuovo tipo di cloud computing, decretando la sostituzione del personal computer per consentirci di accedere ai nostri dati e alle funzionalità software ovunque; a sua volta il PC aveva all’epoca sostituito i terminali connessi ai mainframes centralizzati. Gli smartphone e il mobile computing ci hanno liberato quindi da molte catene, ma anche la loro innovazione non è riuscita a superare il concetto dell’accesso, perché pur essendo sempre disponibile (ci accediamo oltre 200 volte al giorno, dicono le statistiche), richiede ancora un atto intenzionale: quello di estrarre il telefono dalla tasca e interagire con esso.

Per superare e archiviare lo smartphone, il prossimo passo ci deve portare verso il computing ambientale. Ma dove ci porterà, effettivamente? Nessun essere umano può pensare (o anche sono accettare) di poter comunicare con chiunque ovunque ed in ogni momento, 24/7. Il software (l’AI) può essere/è invece sempre disponibile, l’essere umano no. Per rispondere a questa situazione, la strada sarà probabilmente quella della virtualizzazione dello spazio, dell’eliminazione del fattore tempo e dell’interattività “always on”; se c’è bisogno di qualcosa con cui interagire continuamente dovrà esserci qualcosa che interagisce con gli esseri umani in modo più naturale: esempi di questo tipo solo strumenti per ora troppo scomodi come il VisionPro di Apple, quelli più semplici da indossare anche se oggi troppo poco funzionali come gli occhiali smart come quelli creati da Ray-Ban e Meta, oppure l’idea nuova di PinAI appena presentato (di cui abbiamo parlato sulla newsletter di Aiway, qualche settimana fa).

2) Hardware (computer) progettati su logiche totalmente differenti dal punto dell’approccio del calcolo, basati su un approccio che si propone di simulare come lavora il cervello umano, quello che in gergo tecnico viene chiamato Neuromorphic computing. In breve, il calcolo neuromorfico o l’ingegneria neuromorfica è un approccio informatico basato sulla struttura e sul funzionamento del cervello, usando dei chip che utilizzano neuroni artificiali per eseguire il calcolo per cercare di ottenere risultati che possono essere più efficaci per alcuni tipi di risoluzione dei problemi. Non vogliamo complicarvi la lettura, ma per farla breve vi segnaliamo che, grazie a questa innovazione, potremmo anche iniziare a parlare di qualcosa che potrebbe alla fine assomigliare a un cervello biologico. Si parla di futuro lontano? No: avete sentito la grande “telenovela” che ha investito OpenAI? Intendiamo quella relativa a Sam Altman, il suo CEO e co-fondatore (insieme a quel personaggio di cui tanto si parla e di cui perleremo, Elon Musk), cacciato per “poca trasparenza” nei confronti del board dell’azienda e poi, dopo solo 5 giorni tornato al suo posto dopo che era stato immediatamente accolto – lui e il suo team, all’interno di Microsoft (che è anche il maggiore sponsor ed investitore in OpenAI)? IL MOTIVO di questa questione era legato ad un progetto che si chiama Q* (si legge Q Star) ed è legato proprio a questa evoluzione, a dei chip che intendono svolgere esattamente questo tipo di innovazione. A breve…

Cosa ci porta a tutto questo?

Che oggi si sta disegnando, alle nostre spalle e davanti ai nostri occhi, un futuro delle “macchine” che sempre più assomigliano a noi, che sempre più interagiranno con noi umani non più a comando, ma accompagnandoci tutto il giorno, in ogni minuto, si fonderanno con la nostra vita, un affiancamento al quale abbiamo dedicato la nostra cover story e tutto questo numero di Aiway2, un approccio che ha, nella nostra testa, un termine chiaro: SIMBIOSI, che dal greco συμβίωσιςvivere insieme“, ma che finora ha avuto una valenza puramente biologica, perché non era possibile, per l’immaginario umano (ancor meno per i greci antici), pensare che ci potesse essere “vita” se non in termini biologici, semmai era accettato che potessero esserci vite in comune tra esseri umani ed animali.

E dopo questo percorso, che vi stiamo tracciando a puntini, come ci piace sempre fare, dopo avere connesso l’evoluzione dell’AI come tecnologia informatica che provoca un cambiamento negli strumenti e nell’uso di questi nel quotidiano umano, arriviamo al fatto che la simbiosi umani/macchine ci porta ad un percorso unito che non ci separerà più, se ci piace una metafora meno tecnologica possiamo andarla a cercare nella storia raccontata nella serie His Dark Materials, dove gli umani, in un mondo parallelo, sono caratterizzati da un’anima che si manifesta sotto forma di daimon, un animale parlante, solitamente di sesso opposto, che sta sempre al fianco della sua controparte umana e che ne condivide gioie, dolori, vita e morte.

Ma come ci si dividerà i compiti? Cosa farà l’umano, e cosa invece delegheremo alle macchine, o addirittura saranno le macchine che decideranno di occuparsene direttamente ed autonomamente?

Qualche giorno fa, il già citato Elon Musk, intervistato dal Primo Ministro inglese, ha dichiarato:

“Non avrai bisogno di lavorare… Potremo avere un lavoro se vorremo un lavoro. Ma una delle sfide in futuro sarà come trovare un senso nella vita”

Un miliardario che ha un patrimonio personale di 208 miliardi di dollari, può anche permettersi di essere uno sbruffone, gli viene benissimo, e quindi di fare dichiarazioni di questo tipo in modo leggero, specialmente considerando che da quando è a capo di Twitter (ora diventato X) ha licenziato oltre l’80% dei dipendenti, ma cosa significa che “non avremo bisogno di lavorare”? Forse sarebbe corretto pensare che la questione sia ben più complessa di così, come abbiamo letto di recente, la frase sembra portare più a questo concetto:

“Dovrai lavorare, ma non sarai in grado di trovare un lavoro per pagarti, perché qualunque compito tu sia in grado di fare, sarà intrapreso da un sistema di intelligenza artificiale automatizzato, quindi alla fine, le tue abilità e poi -tu- diventeranno ridondanti”.

L’AI, il nostro compagno di viaggio, l’entità con cui saremo in simbiosi, ci permetterà di risparmiare più tempo per concentrarci su quello che è “la vita”, potremmo anche romanticamente arrivare a dire – anche questo lo abbiamo letto di recente, leggiamo molto 😉 – che potremo dedicarci ai nostri respiri, al nostro benessere e quindi più concretamente alla nostra esistenza.

Se volessimo/vogliamo essere meno romantici, ma sempre ottimisti, ci viene incontro l’opinione di Huang Jensen, CEO di Nvidia, l’azienda di hardware che con l’AI ha fatto un balzo di crescita stellare (+206% solo nel 2023), proprio grazie alle intuizioni dello stesso Huang in tempi non sospetti (quando nessuno stava investendo sull’AI) e che quindi è sicuramente una dichiarazione di spessore:

“La mia sensazione è che l’AI probabilmente genererà nuovi posti di lavoro, perché la prima cosa che accade con la produttività è la prosperità. Quando le aziende hanno più successo, assumono più persone, perché vogliono espandersi in più aree”.

La linea di pensiero comune – ha osservato – porta ad ipotizzare che se un’azienda migliora la produttività con l’IA, allora impiegherà meno persone. Ma questo presuppone che un’azienda non avrà nuove idee e questo non è vero per la maggior parte delle aziende.

Noi siamo ottimisti per natura, perché forse abbiamo imparato un pochino a conoscere gli esseri umani, e se forse ci siamo un po’ riusciti (sempre che ci siamo riusciti) è perché siamo appunto romantici ed empatici, e quindi cerchiamo di guardare un po’ oltre i numeri, alla freddezza dei dati, alle evoluzioni che portano a vedere il futuro come qualcosa che sovrasta ed annulla il passato senza che nessuno possa trovare le energie per reagire, come se si avesse sempre a che fare con l’innovazione che corre e la tradizione che rimane immobile. Non è così: le persone, gli esseri umani, hanno un sacco di idee, non tutte buone certamente, ma che mutano, che si evolvono, che si muovono. E quindi al contrario dei dati e delle analisi di chi è capace di anticipare e predire il futuro al punto di investirci miliardi (e guadagnare su queste ipotesi) ci dicono che tra il 2025 e il 2030 quasi tutte le nostre competenze professionali verranno sostituite dalle macchine e dall’AI (quelli che hanno redatto questo documento, quelli di Sequoia, sono tra i più grandi investitori in startup innovative al mondo, quelli che guardano il sangue a forma di dollari nei corpi delle persone e delle aziende, non certo le loro anime), al contrario di tutto questo invece, noi crediamo fermamente e siamo sicuri che con energia, con istinto (anche animalesco), con impegno, con una buona informazione e con una forte formazione (anche quella che proviamo a fare qui, con tanto, tanto… tanto impegno), l’umanità grazie all’AI non solo si salverà, ma anzi potrà migliorare, vivere meglio, trovare un equilibrio tra lavoro e tempo più sensato, maggiore concentrazione su quello che davvero conta, nel lavoro e nella vita.

La cosa che ci spaventa (e ci stimola a fare meglio, da dentro) è che l’umanità è fatta da chi si deve “aggiornare” ed adattare, e da chi deve essere formato per entrare in questo mondo, e stiamo pensando alla scuola. La scuola ha un ruolo fondamentale, ancor più che in passato, per preparare le nuove generazioni alla vita ed alla professione, e deve cambiare tantissimo, totalmente. Come insegnare, perché le “risposte” le avranno tutti a portata di pensiero, basterà il domandarsi per avere già le risposte necessarie: la scuola è riuscita a sopravvivere a Google che forniva risposte a tutto, ma non è detto che possa sopravvivere a ChatGPT, se non cambia.

La scuola deve essere terreno di sperimentazione, palestra per cercare nuove strade, anche per sbagliare. La scuola deve puntare sul creare entusiasmo del condividere sapere, non dell’avere solo il ruolo di chi deve dare “risposte”. Le macchine sono già troppo brave a dare risposte, ma non insegnano a fare domande, la scuola deve insegnare a farsi domande. Non c’è più tempo per questo cambiamento, deve essere chiara l’urgenza, altrimenti avremo generazioni di giovani che non saranno ancora pronte a dialogare e ad entrare in SIMBIOSI con le macchine, ma avranno nel frattempo perso la capacità di essere anche solo umani. Non possiamo annullare delle generazioni solo perché chi deve formarli e le istituzioni/strutture non saranno ancora pronte. Lo abbiamo visto, molto in piccolo, con l’incapacità di gestire una “semplice complicazione” (rispetto all’AI) del distanziamento da Covid: abbiamo perso due anni di giovani, che stanno ora a stento recuperando il terreno perso.

E non dimentichiamoci che “scuola” non è solo quella dei giovani: non si finisce mai di essere “studenti” e quindi questa urgenza va vissuta anche dentro le aziende, siano queste grandi o piccole, perché fin quando non sarà completata la simbiosi tra ciascuno di noi e la “sua” versione AI, il proprio specchio/doppio che ci completerà, serve un impegno collettivo. Istituzioni, politica, rapporti sociali, famiglia… tutti sono chiamati a fare il proprio, a dare un proprio contributo, ad aiutare gli altri al trovare questo futuro, che ci darà tanto, ma che ci chiede – oggi – di prendere coscienza del cambiamento in atto. La coscienza, quella che si dice essere l’ultimo step che ci distingue dalle macchine… Coscienza, se ci sarà l’ottimismo sarà ben motivato.