Editoriale
Mentĭor – Verità, finzione o bugie?
Viviamo in un periodo complesso, dove abbiamo perso buona parte (tutti?) i capisaldi che hanno sorretto le nostre certezze, addirittura la nostra umanità. Delle babeli del sapere è rimasto poco, la capacità di malleare l’esistenza stessa della verità è passata dalle mani, dalle menti e dallo studio dei ricercatori e degli esperti a… tutti.
Malleare è una parola che ci dice che ci si può piegare alla volontà altrui, che si può modellare proprio con un martello (malleus, in latino) e anche se può essere interpretato come qualcosa che permette di creare, dalla materia grezza come il ferro, qualcosa di bellissimo, dalla forma e dalla sostanza perfetta, come per esempio orientare ed educare le giovani menti come avviene in ambito formativo, non può non farci pensare che per per farlo serve violenza, serve battere con forza con un martello, deformando. Vista così non è, ovviamente, una bella immagine, non è una bella prospettiva: modellare significa modificare con violenza qualcosa che potrebbe evolvere in modo naturale, ad esempio in una farfalla? In più, oggi viene messo sempre più in dubbio e viene criticato sempre di più il valore nominale del sapere, dell’autorevolezza, della competenza: come qualcosa che arriva dall’alto, e quindi è negativa, come il martello che dall’alto colpisce con violenza, per modellare in modo innaturale.
Se una volta, chissà se a ragione o a torto (probabilmente, ci sono entrambe queste opzioni intrinsecamente connesse), si poteva accettare che, in nome del sapere e del giusto, si potesse imporre una retta via, ora è l’opinabilità a vincere, la prospettiva, l’esperienza vissuta da ciascun singolo, ogni persona indipendente pretende di dettare la convinzione assoluta, e poi ci hanno pensato le piazze digitali – quelle che chiamiamo “social” e che di fatto sono molto più asociali di quello che sembra dal loro nome – ad amplificare qualsiasi voce, senza richiedere alcuna verifica, senza un controllo, senza una censura. La libertà di dire quello che si vuole chiude lo spazio alla libertà per il giusto, per il corretto, per la verità.
Non esiste una sola verità; chi prova ad indicarla viene messo al bando, viene considerato presuntuoso, le “prove” di qualsiasi cosa e del suo relativo opposto possono essere trovate in ogni angolo della rete: che la terra sia tonda, che sia piatta, addirittura che la terra non esista. E non serve a nulla ricercare la ragione, vince chi urla di più, chi picchia di più, o chi in realtà alza le spalle, disinteressandosi degli altri, di tutti: conta solo quello che pensa, ed è quella la “verità”.
In questo periodo di elezioni americane, appare evidente che la discussione nelle ultime settimane su chi sarà il prossimo Presidente USA non si è concentrata su chi diceva più o meno bugie (Trump, nel famoso dibattito che lo ha visto trionfare, ne ha dette 30 in 90 minuti), ma su chi appariva più o meno “suonato” dall’età, che ovviamente ha messo in luce altre bugie che sono state dette in questi due anni, quando si dichiarava che l’attuale presidente e candidato per la prossima elezione sarebbe stato “perfettamente in grado di fare il mestiere più difficile del mondo per i prossimi 4 anni. Tutti si sono, in quei giorni, concentrati esclusivamente sul capire se, di fronte a delle telecamere, Biden dimostrava nel tono della voce e nello sguardo se sarebbe stato in grado di intendere e di volere. Non sembrava importare la verità in assoluto, ma la forma, l’apparenza. Ancor di più: interessa sempre e solo la storia che si vuole raccontare, come la si vuole raccontare e come la si vuole far percepire, perché gli elettori (e tutti, in generale) alla fine in un’era di incertezza si affidano – quindi credono, quindi tifano, quindi votano – per la storia che viene raccontata meglio, che include le parole chiave (keywords) più forti, che fanno credere che si sta facendo la scelta giusta. Non i fatti, ma i fatti alternativi, quegli Alternative facts che sempre sono collegati a Trump fin dal suo primo mandato.
La “verità” e la sua importanza sembra essere venuta fuori, ed è uscito di scena Biden ed è arrivata Kamala Harris, che di professione, prima ancora che politica, è una che (ri)cerca la verità… chissà se la strada del prossimo futuro ci porterà a riconsiderare, a ridare forza alla realtà oggettiva, concreta, indiscutibile. Ci riuscirà? Chissà, perché il fatto è che noi tutti, esseri umani confusi, abbiamo difficoltà al dare valore sufficiente alla verità, quella inconfutabile, quella dura, quella che non concede interpretazioni. Preferiamo la narrazione, il racconto, l’invenzione. Quello che conta… è accettare e fare nostra questa verità alternativa, al meglio. Tornando indietro di tanto, possiamo citare una frase di Orazio nel descrivere in latino la forza narrativa di Omero:
Atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet, Primo ne medium, medio ne discrepet imum
Per “semplificare” non solo in italiano, ma anche in lingua moderna comprensibile a tutti:
E così mente, mescolando il falso con il vero in modo tale che l’inizio non si discosti dalla metà, né la metà dalla fine
In altre parole, l’autore sottolinea la capacità di Omero di raccontare falsità così abilmente intrecciate con la verità che ogni parte del discorso rimane coerente con le altre parti della narrazione, garantendo una perfetta continuità dall’inizio alla fine.
Dentro questa frase si cela una parola, quella che abbiamo scelto per questo quarto numero di Aiway, che dimostra che il rapporto complesso tra realtà e finzione che tanto percepiamo in questo periodo di particolare incertezza, in gran parte legata all’esplosione dell’AI, è sempre esistito, ed era importante già secoli fa. Questa parola è mentĭor. Con questo vocabolo, i latini avevano unito due concetti:
1) Mentire, dire il falso
2) Inventare, immaginare
Immaginare significa, di fatto, andare oltre il reale, rappresentare con la propria fantasia persone, cose, avvenimenti in forma di immagini, parole, storie. Quindi, mettendola su questo piano, si tratta del lato più meraviglioso della nostra capacità umana, ed anche la differenza tra noi e “le macchine”, in quest’era spesso viene indicata come la capacità di immaginazione, pertanto di dire bugie. Bugie spesso emozionanti, incredibilmente attraenti, ma che non corrispondono necessariamente alla realtà, o che prendono dalla realtà degli elementi e poi li fondono (come l’Omero esaltato da Orazio) realtà e finzione.
In questo numero esploriamo il complesso rapporto tra realtà e finzione/narrazione non solo tra gli umani, ma anche nelle macchine. Perché no, non è una esclusività dell’umano dire bugie: le dicono anche le macchine, o almeno lo dicono quelle macchine che possiedono quelle doti che definiamo di intelligenza artificiale. Esploreremo percorsi ripidi e in salita come quelli delle allucinazioni che l’AI presenta e spiegheremo perché non sono facilmente superabili, anzi: che non sono superabili, perché l’AI come quella che conosciamo oggi dice SEMPRE bugie, o quantomeno racconta storie che hanno un sapore credibile per il solo fatto che l’AI è stata creata per scegliere statisticamente la sequenza di concetti più logica, ma questo non significa affatto dire la verità.
Ma in questo numero, quasi monografico, parleremo della verità delle illusioni, la verità degli algoritmi che controllano il nostro mondo e la comunicazione universale (e di conseguenza i gusti e le scelte che facciamo), la verità dei filosofi ma anche le realtà del fotogiornalismo e della fotografia che è diventata – secondo noi ma non solo – la strada per certificare e consolidare la realtà al punto di poter dire che proprio perché “fotografare significa scrivere con la luce”, dobbiamo (dovremmo) eleggerla a scrittura della verità… Già, perché mettere in luce qualcosa è anche sinonimo di dire la verità.
Sarà un viaggio davvero profondo, per esplorare e provare a capire come affrontare questo futuro, anzi: questo presente. Benvenuti, Aiway 4 parte da qui, e iniziamo a raccontarlo con LE nostre copertine che sono al tempo stesso forma e sostanza di quello che vogliamo raccontarvi.
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