Quando le aziende illuminate costruivano valore
L’intelligenza artificiale riuscirà ad offrirci la possibilità al mercato (e ai marketers…) di rivivere un’era di visione illuminata? Facciamo un passo indietro, nel XVIII secolo, precisamente tra il 1715 e il 1789 che storicamente racchiude il periodo dell’Illuminismo, nato in Europa e poi esportato anche altrove. In quel periodo, si affermano alcuni concetti, per esempio:
La ragione, per consolidare il concetto che ogni essere umano è dotato di una mente razionale che deve utilizzare per decidere come agire;
La tolleranza, ovvero l’accettazione delle diversità e il riconoscimento che le idee altrui hanno lo stesso diritto di esistere delle proprie;
La fiducia nel progresso per il miglioramento della società attraverso la ragione e la scienza, l’importanza dell’educazione e della diffusione del sapere e un focus sul benessere collettivo e sul miglioramento della vita sociale;
La libertà di pensiero e l’uguaglianza, perché tutti gli uomini sono uguali per natura con parità dei diritti davanti alla legge e la lotta contro i privilegi.
È stato un bel periodo, se guardiamo ai valori che l’hanno caratterizzato ci accorgiamo che forse assomigliano molto a quelli che si dichiarano oggi, nelle piazze fisiche e quelle dei social, specialmente tra le nuove generazioni. Allora forse dobbiamo provare a credere che sì, che forse possiamo sperare in un nuovo Illuminismo, con il contributo di una carica innovativa così poderosa come l’AI che ci permette di elevare il nostro pensiero oltre l’operatività quotidiana, alla semplice visione del “fare, produrre, ottimizzare”.
I ritmi della storia sono sempre ripetitivi, ma non sempre nello stesso ordine: quello che è seguito all’illuminismo, ovvero la rivoluzione francese (con la fine dell’espressione pacifista dell’illuminismo) e quella della rivoluzione Industriale concentrata sulla riduzione dei prezzi dei prodotti e la crisi del lavoro artigianale, ora sembra riproporsi al contrario: siamo in un’era di guerra, viviamo ancora i postumi della globalizzazione (dove c’erano aree geografiche che erano la “fabbrica del mondo”, e che ora invece sono diventate così grandi da essere il mercato più ricco dei consumatori, altro che operai…) e speriamo che tutto questo verrà invece sostituito da un’evoluzione che metterà in luce l’importanza del pensiero e delle idee.
Ma perché proprio l’intelligenza artificiale – che viene definita in giro come la nemica dell’umanità – dovrebbe aiutarci ad entrare in un periodo di maggiore valore umanistico? Perché l’AI ci toglierà molta della disumanizzazione del lavoro, della società, ci chiederà di operare in modo più umano e meno “da macchine” (ci saranno le macchine che lo faranno al posto nostro).
Ma come facciamo ad imparare a seguire la strada giusta? Vediamo purtroppo che molte aziende, persone e professionisti stanno usando l’AI nel modo peggiore possibile (come evidenziamo nell’articolo che affronta il problema più evidente di questo periodo), cercando di perdere l’umanità e diventare schiavi e schiave di un approccio tossico all’AI, ovvero quello “del tasto che basta premere per ottenere qualsiasi cosa“, ancor più le cose che nessuno finora aveva anche solo l’idea di poter immaginare (ed era saggio non immaginarle…).
La strada è seguire gli esempi delle aziende che invece questa visione illuminista e illuminata l’hanno adottata in tempi recenti. Ci vengono in mente due esempi la cui storia si è più volte intrecciata, dalle evoluzioni totalmente opposte (una si è spenta, l’altra è diventata immensa), ma entrambe hanno una storia legata ad un fatto drammatico che coinvolge la scomparsa prematura del loro fondatore. La prima azienda è Olivetti, la seconda è Apple.
Parliamo di due percorsi illuminati, che vogliamo recuperare in questo spazio nelle loro (più importanti) fasi iniziali, perché è utile comprendere che se in entrambi i casi il buio è arrivato (rispetto all’illuminazione), forse riusciremo anche a capire che il valore più profondo di un’azienda non si dovrebbe mai misurare sul semplice successo del numero di utenti e dal fatturato, perché la storia non ricorda chi ha fatto più soldi, ma chi ha cambiato il flusso dell’umanità. Olivetti oggi è un’opaca divisione di TIM (anche se sviluppa dal punto di vista formativo e di visione importanti iniziative, tutte centrate però sulla visione “del passato”) e quindi di fatto viene celebrata per quello che è stata e non per quello che “è oggi“; ma anche Apple che pur in questi giorni sta toccando il record di capitalizzazione raggiungendo 4 trilioni di dollari ed è quindi una delle aziende più floride e di successo al mondo, cosa “fa oggi” a parte “fare miliardi di dollari”? Con la morte di Steve Jobs, così come con la morte di Adriano Olivetti, le due aziende hanno proseguito per inerzia, non per capacità di inventare o di cambiare la nostra vita. Però, entrambe, nella mente e sotto la guida dei fondatori, hanno davvero mostrato come “azienda” può voler dire molto di più di “macchina per fare soldi” e sono state fari che hanno orientato il mondo, le persone, e molti di noi siamo figli proprio di questa visione.
Olivetti e Folon
Immaginare e disegnare il futuro: una visione illuminista in azienda
Era il 1967 e qualcosa stava succedendo che, indirettamente, sarebbe stato di ispirazione per questo numero. Si tratta di un incontro tra un giovane e sconosciuto artista belga, Jean-Michel Folon, con una persona che, pur rappresentando molto poco questo ruolo all’interno della famiglia e della mia vita, era mio zio. Si chiamava Giorgio Soavi, ed è stato probabilmente il mio punto di riferimento e di ispirazione di vita: scrittore, art director, appassionato d’arte, pubblicitario. Uno di quei grandi nomi della cultura italiana, e chissà se per qualche stranezza del DNA mi ha trasmesso se non qualche qualità (che probabilmente nemmeno posso sognarmi di avere), quantomeno le passioni e gli interessi e l’approccio nei confronti della vita.
Lo stesso Folon ha raccontato questo incontro: «Quando ero povero e sconosciuto [Soavi] ha visto i miei disegni e mi ha affidato un primo lavoro. “Fai qualche cosa con una macchina per scrivere” ha chiesto. “Non so disegnare una macchina per scrivere” gli ho risposto. “Puoi inventarla, se preferisci”. Ho incominciato il mio disegno. Su ogni tasto di un’immensa macchina per scrivere, qualcuno batteva a macchina. Come se il mondo non fosse stato che una macchina per scrivere. Come se delle persone non avessero altro da fare che battere su una macchina per scrivere. Giorgio ha detto che “era semplicemente geniale”. Ecco perché Soavi mi è piaciuto subito. Non siete nessuno. Passate le vostre giornate a disegnare. Un giorno qualcuno guarda un disegno e vi dice che è ‘semplicemente geniale’». Nasce così un manifesto di Folon per la Olivetti, dedicato alla macchina per scrivere portatile Lettera 32.
Molti altri lavori sono nati da questa collaborazione, per quasi trent’anni di idee, di ispirazioni, compreso un progetto significativo con la realizzazione del cortometraggio Le message, un’opera di quasi cinque minuti di animazione. Il protagonista è un omino blu (che poi diventerà un elemento fisso della produzione artistica di Folon) che, interagendo con una gigantesca macchina da scrivere, riempie un foglio di lettere e numeri. Una volta completata la scrittura, trasforma il foglio in un aeroplanino di carta, lanciandolo nell’aria come messaggio destinato a chi lo raccoglierà. Questo cortometraggio, prodotto dalla Olivetti e uscito nel 1969, incarna una filosofia poetica che promuove la libertà delle idee, lo trovate qui sotto.
Arrivò però anche un momento di grande delusione per il giovane Folon quando non riceve la risposta sperata da New York, dove sperava di pubblicare una serie di disegni sulle frecce stradali. Soavi, affascinato anche da quel suo lavoro, vide in essi un’espressione della limitazione della libertà, vide in quelle frecce stradali la necessità di trovare un ordine e decise di progettare delle agende da tavolo per la Olivetti, utilizzando dodici di questi acquerelli delle frecce di Folon, uno per ogni mese dell’anno. Nel 1969, viene così lanciata la prima di oltre trenta agende, che diventano oggetti da collezione.
La collaborazione tra Folon e Olivetti si è estesa con la produzione di manifesti e libri strenna. Per esempio, il manifesto del 1969, intitolato Folon for Olivetti, rappresenta simbolicamente la ricerca di nuovi orizzonti, riflettendo le vicende olivettiane di quegli anni e suggellando il profondo legame tra l’artista e l’azienda. Dove finiva la visione illuminata di Olivetti e dove iniziava la poesia visuale di Folon? Dove la mano dell’artista si fondeva con il tramite di Soavi che dava forma e sostanza alla cultura aziendale di Olivetti?
Questa collaborazione lavorativa, diventata una profonda amicizia con Giorgio Soavi, è stata poi suggellata da un bellissimo libro che è sempre circolato per casa e che vi mostriamo in qualche immagine qui sotto, e che riproduce una serie di buste della corrispondenza tra Folon e Giorgio Soavi, illustrate dall’artista. Il libro si chiama semplicemente “Lettere a Giorgio”. Un altro esempio di come l’immaginazione non ha confini, che ci recupera momenti di nostalgia, quella delle lettere che erano poche, richiedevano tempi lunghissimi per raggiungere il destinatario, creavano un contatto fisico, si conservavano, anche gelosamente, in un cassetto o tra le pagine di un diario (anche quello, fatto di fogli di carta). Ma questa è un’altra storia, che si collega al tema del nostro numero, ma che è marginale rispetto al messaggio che vogliamo trasmettere.
Folon e Apple
Sempre Folon è stato particolarmente apprezzato anche da Steve Jobs che fu così colpito dallo stile dell’artista che si dice gli abbia pagato 30.000 dollari in anticipo per un disegno finalizzato alla successiva creazione del logo del Mac, che però poi fu affidato a Rob Janoff.
Jobs era un giovane visionario di 28 anni che tentava di dare un’anima al suo prodotto, in un’epoca in cui i computer erano visti come mostri di metallo e plastica. Era il 1982 quando, ossessionato dall’idea di creare qualcosa di profondamente diverso, immaginò quindi un computer che potesse sorridere (vi ricorda qualcosa? Sì, il leggendario “hello” della prima presentazione mondiale del Mac) e arrivò a pensare ad un personaggio, Mr. Macintosh, un abitante digitale che avrebbe dovuto vivere all’interno di ogni Mac, apparendo improvvisamente per stupire e deliziare gli utenti. Quanto di questa visione assomiglia a quello che stiamo vedendo oggi, con la nascita degli assistenti AI all’interno dei computer, degli smartphone, dei sistemi operativi?
Per dare vita a questo sogno, Jobs si rivolse proprio a Jean-Michel Folon. L’incontro tra i due nella sede di Cupertino fu molto promettente: Folon, di fronte al prototipo del Macintosh, vide immediatamente ciò che Jobs aveva intuito – la possibilità di infondere calore umano in una macchina.
I disegni che nacquero da questa collaborazione sono straordinari: “The Macintosh Spirit” mostrava il computer trasformato in un essere etereo che fluttuava nell’aria, mentre il ritratto di Mr. Macintosh, con il suo cappello a cilindro e il cappotto elegante, sembrava uscito da un racconto di Dickens ambientato nel futuro.
Ma il destino aveva altri piani. I limiti tecnologici dell’epoca – un semplice floppy disk da 400KB – si rivelarono una gabbia troppo stretta per contenere i sogni di Jobs e Folon. Mr. Macintosh rimase intrappolato nei disegni e in un solitario circuito stampato prototipo, come un personaggio in cerca d’autore.
Eppure, questa apparente sconfitta nasconde una vittoria più profonda. Jobs e Folon avevano osato immaginare un futuro in cui la tecnologia non ci avrebbe resi meno umani, ma più completi. La loro visione di un computer che potesse essere amico, non padrone, ha influenzato profondamente il modo in cui oggi interagiamo con i nostri dispositivi.
Una lettera di ringraziamento del 1990, ritrovata anni dopo, testimonia come il loro legame sia sopravvissuto ben oltre questo progetto incompiuto. Due sognatori che, in un’epoca di freddo pragmatismo tecnologico, hanno osato immaginare che un computer potesse avere un’anima.
E torniamo al presente, all’illuminismo che arriva con l’AI.
Queste due storie raccontano che c’è stata l’integrazione tra tecnologia, innovazione e immaginazione. E che, oggi ancor più di ieri, questo è possibile purché non si utilizzi questa rivoluzione tecnologica in modo banale, come serva di idee nate vecchie e che non comprendono come possono svilupparsi in modo nuovo. Siamo davvero delusi di vedere l’AI, specialmente il suo lato di generazione creativa, al servizio di richieste prive di sensibilità, prive di poesia, prive di quella leggerezza che eleva il pensiero.
Vorremmo vedere, e lotteremo per riuscirci, nel nostro piccolo, anche con tenacia, per portare un nuovo approccio fatto di nuove idee tra le aziende, nella comunicazione, nell’industria, e – non ultimo per noi – tra le nuove generazioni che ci spaventano per essere troppo concentrate sulla velocità e sulla semplificazione dei messaggi e dei toni. Non è colpa “loro”, è colpa di una società e di un’economia che punta al risultato immediato, sui ritmi di uno scroll che non si sofferma sulle sfumature, sui dettagli, sulle emozioni profonde. Ma sappiamo che non si può andare più veloce, non si può correre di più di quello che già stiamo facendo, e quindi serve un’inversione di tendenza. Qualcuno lo deve fare, qualcuno deve iniziare a crederci, qualcuno deve capire che l’economia dell’attenzione (e, di conseguenza, anche l’economia vera) non può puntare solo al salire, al superare il record precedente (di borsa, di fatturato, di like…).
Ci siamo imbattuti in una teoria bellissima, quella della “ciambella”. La teoria economica della ciambella, sviluppata dall’economista Kate Raworth, offre un modello innovativo per ripensare l’economia del XXI secolo. Immagina una ciambella: il cerchio interno rappresenta i bisogni umani fondamentali (come cibo, acqua, salute, istruzione, lavoro dignitoso) sotto i quali nessuno dovrebbe cadere. Il cerchio esterno invece rappresenta i limiti planetari che non dovremmo superare per evitare danni ambientali irreversibili (come il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità).
Lo spazio tra questi due cerchi – la “pasta” della ciambella – rappresenta l’area sicura e giusta dove l’umanità può prosperare: qui l’economia soddisfa i bisogni di tutti nel rispetto dei limiti del pianeta. Quando l’attività economica supera il bordo esterno, causa danni ambientali; quando invece non raggiunge il cerchio interno, genera povertà e privazione sociale.
Questa teoria sfida l’ossessione per la crescita economica illimitata, proponendo invece un’economia “rigenerativa e distributiva” che mira a portare tutta l’umanità nello spazio sicuro della ciambella. È come se dovessimo trovare il punto giusto di cottura della ciambella: né troppo cruda (lasciando le persone nella povertà), né troppo cotta (bruciando le risorse del pianeta).
Ecco, la chiave per noi, è pensare al nostro futuro come ad una ciambella, ma dove la “pasta” è data dalla capacità di immaginare e raccontare prodotti, idee, messaggi con uno spirito più creativo, che possa puntare sulle emozioni, quelle emozioni che sono l’unica arma che davvero dovremmo usare per trovare il nostro spazio, tra e insieme alle macchine. Lo avevano capito Adriano Olivetti, Steve Jobs e probabilmente tante altre persone che hanno usato questo approccio e che forse sono rimaste sconosciute. Perché non esistono solo i grandi, esistono tante battaglie anche piccole, a dimensione umana, che però non sono necessariamente inferiori solo perché più piccole.
Noi ci stiamo provando con questa rivista, che nel 2025 si evolverà molto: partendo dal basso, partendo dal piccolo, ma con tanto tanto impegno. D’altra parte, proprio durante l’illuminismo, una delle più significative espressioni di questo movimento è stata una rivista, “Il Caffè“, dalle caratteristiche uniche e innovative per l’epoca.
Fondato nel giugno 1764 da Pietro Verri e pubblicata fino al maggio 1766, usciva ogni dieci giorni, per un totale di 74 numeri. Si stampava a Brescia, in territorio veneto, per evitare la censura austriaca. Il suo formato era un foglio ripiegato in quattro pagine, scritte fronte e retro su due colonne. La rivista trattava argomenti disparati: economia, agronomia, storia naturale, medicina, promuoveva un linguaggio libero e diretto, concentrandosi sulla forza del pensiero e mirava a “spargere utili cognizioni” tra i cittadini. Il suo obiettivo era quello dello svecchiamento delle istituzioni e razionalizzazione dell’apparato statale, la diffusione del pensiero illuminista in Italia e la creazione di una nuova forma di socialità attraverso l’incontro di persone e ceti diversi. Tra i suoi collaboratori Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria ed altri membri dell’Accademia dei Pugni. È stato il primo giornale italiano agitatore di idee, come piaceva definirsi.
Speriamo che possa anche una rivista come la nostra (dove per “nostra” intendiamo come quella realizzata da chi la fa e da chi la legge, come voi) possa fare qualcosa per agitare le idee in questa era, così eccezionalmente ricca di potenzialità e per ora bloccata dagli umani, che per paura cercano di disegnarla male.
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