AI come LSD
Non posso dire di essere cresciuta ascoltando o collezionando vinili: a casa i miei genitori avevano un impianto “hi-fi” – come si diceva all’epoca – con annesso “giradischi”, e in un armadietto sotto al televisore stava stipata qualche decina di dischi. Erano i primi anni Ottanta e primeggiava quello di “We are the world”, la canzone incisa nel 1985 per beneficenza dal supergruppo “USA for Africa” che vede tantissimi nomi popolari della musica di allora (e in parte anche di oggi): da Michael Jackson e Lionel Ritchie (autori del brano), a Diana Ross, Cyndi Lauper, Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Bob Dylan e molti altri (se volete scoprire qualche retroscena gustoso sulla registrazione in studio, su Netflix trovate il documentario “The greatest night of pop”).
Ricordo vagamente che nella collezione c’era anche qualcosa di Ornella Vanoni e degli Inti-Illimani, ma ad essere rimasti più impressi nella mia memoria, per le immagini e per la musica, sono stati due dischi dei Bee Gees: la compilation “Best of Bee Gees” (che conteneva le canzoni della prima “vita” della band, quella più tradizionale e romantica) con in copertina i volti dei fratelli Gibbs in nero su uno sfondo giallo, e poi “Main Course”, forse l’album che finì per traghettarli verso il successo planetario (con la colonna sonora di Saturday Night Fever). La custodia del disco rappresentava una ragazza nuda immersa in un cucchiaio, circondata da nastri svolazzanti che abbracciano il logo e che insieme ad esso si stagliano su uno sfondo/pattern ispirato all’art deco. L’illustrazione era di Drew Struzan e il logo di Ernie Cefalu (a quest’ultimo si devono anche gli angeli di Jesus Christ Superstar e la famosa linguaccia dei Rolling Stones) e forse erano proprio le linee floreali ma geometriche del pattern ad affascinarmi da bambina, visto che di sicuro ero troppo giovane per apprezzare davvero testi e musica.
La mia formazione musicale, prima di arrivare ai CD, è avvenuta su supporti ben meno nobili dei vinili, con quelle musicassette che poco ancora sono state rivalutate (anche se negli ultimi anni hanno fatto capolino tra il merch di varie band ed artisti). Erano le più economiche, le meno delicate, si infilavano nello stereo di seconda mano che avevo in camera (senza scomodare l’”hi-fi”) o il walkman, ma soprattutto si potevano acquistare vergini al supermercato. Ricordo ore e ore passate ascoltando la radio nella speranza che passasse questa o quella canzone, per poterla registrare e riascoltare poi in seguito. Un processo per lo più fallimentare e di sicuro poco ottimizzato come tempi, ma che ha allenato la mia prontezza di riflessi (non ne sono poi così sicura) o la mia abilità nel riconoscere una canzone dalle prime note (sono ancor meno sicura di questo): scherzi a parte, oggi una cosa del genere ci sembra assolutamente preistorica. La musica non era così accessibile e disponibile come è oggi: MTV e la radio erano la porta più facile, ma a stabilire il palinsesto o l’ordine di riproduzione dei brani non era certo lo spettatore, non c’era telecomando in grado di darci il potere che abbiamo oggi con le piattaforme di streaming o, già qualche anno fa, con la possibilità di acquistare un singolo brano digitale. Per non parlare dell’accesso gratuito su Youtube o varie modalità illegali di ascolto e download.
All’incredibile quantità e facilità di accesso si affianca però anche una svalutazione del prodotto in sé: se prima si faticava tanto per acquistare un album del proprio cantante preferito (o per riuscire a registrarne la hit mentre passava alla radio), oggi è così veloce poter ascoltare qualsiasi cosa in qualsiasi momento che è più raro sviluppare un attaccamento al brano digitale paragonabile a quello che si sviluppa con gli oggetti fisici. Questa è comunque una considerazione generale: non posso dire che alcune delle mie canzoni preferite abbiano per me, a livello personale, valore inferiore solo perché sono state scritte e ne ho fatta esperienza solo dopo l’avvento di Spotify, ma di sicuro ho personalmente faticato meno a farle mie, il che ha reso il tutto più semplice, ma anche meno prezioso, e la custodia che le conserva – oggi un semplice file JPG – non ha il peso e non occupa lo spazio che avrebbe potuto fare quella di un disco in vinile.
“Ciò che amo dei dischi è la copertina, eccellenti fotografie e grafica, incredibile immaginazione” – Noel Gallagher
Con queste parole si apre il documentario “Squaring the circle” diretto da Anton Corbijn (noto per la sua attività di fotografo di musicisti e per il film “Control” che racconta la storia di Ian Curtis, frontman dei Joy Division) e dedicato al duo di creativi che ha firmato le copertine più iconiche della musica inglese tra fine anni Sessanta e inizio Ottanta: Hipgnosis. Forse il nome non vi dice molto, alcuni pensaranno a un errore di battitura o forse altri lo hanno sentito nominare, ma di certo se vi mostrassi l’album “The Dark Side of The Moon” dei Pink Floyd lo riconoscereste immediatamente: sì, quello con lo sfondo nero e il prisma al centro, una delle copertine più celebrate ed iconiche della storia sia della musica che del graphic design è opera di Hipgnosis. A fare parte di questo studio grafico sono due giovani – Aubrey Powell detto “Po” e Storm Thorgerson – che si trovano quasi per caso a fumare erba in un appartamento di Cambridge dove bazzica anche la prima formazione dei Pink Floyd (Syd Barrett, Roger Waters, David Gilmour e Nick Mason). Siamo alla fine degli anni Sessanta, l’ambiente è bohemienne e la Londra sullo sfondo totalmente senza regole: Po a un certo punto racconta di aver gettato dal tetto un divano che finì per atterrare su un taxi che passava lì sotto. Conseguenze? Nessuna.
Ma quello che più affascina è il racconto di come sono nate alcune delle copertine più folli ed iconiche: come la mucca (letteralmente la prima che hanno trovato e fotografato) di “Atom Heart Mother”, il maiale gonfiabile che vola sopra alla fabbrica di “Animals” (in realtà un’idea di Roger Waters), i 700 letti sulla spiaggia di Saunton Sands per “A momentary lapse of reason”, giusto per citare alcune di quelle realizzate per i Pink Floyd. Sono molti, però, i nomi della musica con cui collaborano: i Wings di Paul McCartney, i Led Zeppelin, Peter Gabriel…
Un altro aspetto che colpisce è la grandezza dei progetti, i costi di produzione, il numero di persone coinvolte: numeri, quantità, zeri, viaggi in Concorde e altro che oggi non vediamo né sentiamo menzionare con la stessa frequenza. Basti pensare che per “Elegy” dei Nice, volarono nel Sahara con decine e decine di palloni da calcio da gonfiare sul posto (oguno richiedeva almeno 20 minuti per essere gonfiato), il tutto per avere “un paio di dune di sabbia”, diremmo oggi. L’uomo in fiamme di “Wish you were here” (ancora per i Pink Floyd), interpretato da uno stuntman costretto a ripetuti “take” fino a che una folata di vento non rese il tutto davvero troppo pericoloso. Oppure ancora la statua di dimensioni modeste, ma oltre 30 kg di peso, di “Wings greatest” trasportata in elicottero sulla cima delle montagne svizzere… “too easy”, dice Paul McCartney, simulare il tutto con una montagnetta di sale in studio. Un po’ come per “Look hear” dei 10cc, per cui volarono alle Hawaii, cercarono disperatamente una pecora che, poi, solo pesantemente sedata, potesse accettare di stare su un divanetto tra le onde del mare (immagine che, nell’edizione originale del disco, finì per occupare solo pochi centimetri). Avrebbero potuto comodamente andare a scattare in Galles (dove notoriamente le pecore non scarseggiano).
“I dischi sono collezioni d’arte dei poveri” – Noel Gallagher
Al di là di queste produzioni imponenti, l’oggetto, la sua fisicità erano al centro del consumo musicale: l’album era un evento, si ascoltava dalla prima all’ultima canzone, era un rituale, aveva un significato, raccontava una storia che non poteva essere – come è invece oggi – distillata in canzoni da ascoltare singolarmente, distribuite con altre in una playlist. L’interno della custodia, le parole dei testi, i crediti con i nomi di ogni musicista e autore, le altre immagini contribuivano a rendere l’esperienza di fruizione quasi mistica, ancora prima di aver effettivamente cominciato ad ascoltare i brani. È così che viene interamente ricostruito in studio un bar di New Orleans per “In through the out door” dei Led Zeppelin e, dati i sei personaggi nell’immagine oltre al barman, le copertine si moltiplicano: le foto vengono scattate dai punti di vista di questi sei personaggi e distribuite in altrettante edizioni dell’album. E poi, quasi a sfidare il manager della band che diceva di poter vendere album degli Zeppelin anche in un sacchetto di carta marrone (come per dire, inutile con una band così importante spendere così tanti soldi per una copertina), i dischi sono finiti nei negozi effettivamente avvolti in un incarto marrone, assicurando così un effetto sorpresa, ulteriormente amplificato dal fatto che il bianco e nero diventava colore bagnando con acqua l’immagine stampata.
Oltre a viaggi e produzioni imponenti, erano tante anche le tecniche analogiche adottate da Hipgnosis per realizzare queste immagini grandiose, senza poter ricorrere a Photoshop: dal collage al coloring, dal fotomontaggio all’uso di pellicole infrarossi, alla solarizzazione. È un viaggio nel tempo ascoltare Powell raccontare le tante idee geniali messe in campo per risolvere un problema o sistemare uno shooting andato male per via di giorni e giorni di pioggia o di qualche altro imprevisto.
“Mi sono reso conto che, in un certo senso, l’LSD mi ha dato il pensiero laterale, la capacità di pensare fuori dagli schemi. Era davvero facile, e credo che questo sia stato parte del successo di Hipgnosis: sia Storm [Thorgerson] che io eravamo in grado di adattarci facilmente all’allontanarci dalla norma.” – Aubrey Powell
Un tratto comune dei primi anni di attività di Hipgnosis – e delle band con cui collaborano – sembra essere l’uso di sostanze allucinogene come l’LSD, in grado di causare allucinazioni, ma anche di amplificare le funzioni neurali del cervello. È lo stesso Po, nel documentario, a sostenere che le droghe gli hanno consentito di pensare in modo originale, di tirare fuori, insieme al collega Storm, idee originalissime in modo continuativo, senza mai incontrare un “blocco” o incappare in una temporanea mancanza di creatività, anche negli anni successivi. Non sono certo i soli a sostenerlo ed è difficile negare che in quegli anni ci sia stato un grandissimo fermento creativo, dall’arte, alla musica, alla grafica, fino alla tecnologia che di lì a pochi anni avrebbe rivoluzionato la nostra vita con il personal computer (ma il collegamento tra hippie e Silicon Valley forse la teniamo per un altro numero di Aiway…). E oggi il parallelo con l’intelligenza artificiale sembra inevitabile: abbiamo a disposizione la stessa potenziale amplificazione della nostra creatività, facilitata sia dalla velocità dell’AI, ma anche dalle infinite connessioni che può fare a fronte di un nostro input. Il tutto condito da qualche allucinazione qua e là…
“Quando sto lavorando a un design, non mi preoccupo da dove provenga l’ispirazione. Attingo da qualsiasi artista io riesca a trovare, non mi interessa davvero. Non considero ciò che faccio un furto; lo vedo come un prendere in prestito. In questo senso, prendo liberamente dal mondo dell’arte senza esitazione, per così dire.” – Storm Thorgerson
Ispirati da questo viaggio nostalgico nella musica “disegnata” da Hipgnosis, abbiamo preso una “dose di AI” e condividiamo qui immagini e SREF (style reference) della nostra avventura psichedelica.
NB: le immagini dell’articolo sono state generate con MidJourney V6.1. Se volete usare questi codici SREF con MidJourney V7, non dimenticate di aggiungere il parametro –sv 4 a fine prompt.
Non soddisfatti, abbiamo animato alcune di queste immagini con Kling e composto qualche brano con Suno. Siamo anche su Spotify. Di certo siamo lontani dall’essere i nuovi Pink Floyd, ma, come si sa, gli allucinogeni danno alla testa…
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